ELENA ZUCCONI GALLI FONSECA
Ricercatore dell’Università di Bologna
LA CONVENZIONE ARBITRALE NELLE SOCIETA’ DOPO IL DECRETO DELEGATO DI RIFORMA
(Testo provvisorio della relazione, destinato ad essere pubblicato)
SOMMARIO: 1.- Premessa: dal passato al futuro. – 2. La clausola compromissoria statutaria: le controversie che rientrano nell’ambito di applicazione della riforma. - 3. Segue: compromettibilità e disponibilità dei diritti. – 4. Segue: i limiti soggettivi. – 5. Segue: le modalità di nomina. – 6. Arbitrato societario da clausola compromissoria non statutaria o da compromesso. - 7. Il patto arbitrale nell’arbitrato amministrato, irrituale, internazionale, nelle cooperative. - 8. Diritto transitorio – 9. L’arbitraggio nei conflitti di gestione.- 10. Un primo bilancio.
1.- L’arbitrato societario era, prima della attuale
novellazione, tanto prolifico nella prassi, quanto incerto dal punto di vista
dell’applicazione nei tribunali[i].
Tra i vari problemi che ha suscitato, i seguenti
spiccano particolarmente, per quanto attiene alla sua fase genetica.
a) In primo luogo, la questione dei limiti oggettivi
del patto compromissorio, a sua volta sdoppiata in due ordini di profili: a1)
quello riguardante l’interpretazione della convenzione arbitrale ed in specie
della clausola compromissoria contenuta nello statuto, di tenore spesso
generico, per appurare quali controversie le parti abbiano effettivamente voluto
devolvere ad arbitri[ii];
a2) la astratta compromettibilità di talune controversie societarie ed
in particolare quelle riguardanti l’impugnativa di delibere assembleari -ma
non solo[iii]-.
E’ nota, in proposito, la linea rigorosa adottata
dalla giurisprudenza, soprattutto di legittimità, in contrasto con parte della
dottrina[iv].
In pratica, attraverso l’adozione dell’assai
sfuggente metro[v] basato sulla titolarità
degli interessi coinvolti nel contenuto della delibera impugnata, l’eventuale
coinvolgimento di interessi di terzi, o della società in quanto ente distinto
dai soci, determinerebbe l’inammissibilità dello strumento arbitrale, come
nel caso dell’impugnativa di delibera di approvazione del bilancio[vi],
di delibere che riguardano l’operatività degli organi sociali[vii],
lo scioglimento delle società – benchè la questione sia più incerta-[viii].
L’orientamento si estende a macchia d’olio, in
ipotesi nelle quali è a mio avviso patente la confusione fra compromettibilità
e legittimazione a compromettere[ix].
b) In secondo luogo, il problema dei limiti soggettivi
dei patti arbitrali societari ed in particolare della clausola compromissoria
statutaria, in un fenomeno, quello organizzativo, esposto a continui mutamenti
soggettivi e suscettibile di coinvolgere, più di altri casi, individui che non
hanno partecipato in modo formale alla volontà compromissoria.
c) In terzo luogo, le complessità relative alla
costituzione del collegio arbitrale che derivano da un arbitrato ad alto rischio
di “multiparti”. Le controversie societarie, espressione di una
organizzazione complessa e affollata, sovente coinvolgono una pluralità di
parti ed altrettanto spesso la convenzione arbitrale viene strutturata sul
meccanismo c.d. binario, vale a dire con un sistema di nomina del collegio
arbitrale che è in grado di funzionare perfettamente soltanto quando le parti
siano due[x].
Ma, anche con clausole appositamente congegnate per
liti pluralistiche, possono comunque venire in rilievo il principio
dell’eguale apporto delle parti nella nomina dei loro giudici e quello di
imparzialità degli arbitri. Nota è, in proposito la querelle
sulla terzietà del c.d. collegio dei probiviri[xi] o del collegio sindacale[xii]:
sia per il fatto che si tratta di organi interni alla società, sia perché si
dubita della validità di una previsione che affidi la nomina degli arbitri
all’assemblea sociale a maggioranza[xiii].
In questo contesto, appare l’art. 12 della legge
delega 3 ottobre 2001, n. 366, la cui finalità è chiaramente comprensibile,
benché lo strumento individuato non sia
altrettanto condivisibile: si vuole attuare il favor verso l’arbitrato,
con la previsione di clausole compromissorie contenute negli statuti delle
società commerciali “anche in deroga agli artt. 806 e 808 c.p.c.”.
La deroga, di ampio respiro, viene, nel successivo
inciso, specificata in
quella, più ristretta ma non per importanza, diretta a spezzare il nesso
fra transigibilità ed arbitrabilità, salvo
poi mitigare l’assunto attraverso il divieto dell’equità e la garanzia
dell’impugnazione per errores in iudicando: una soluzione salomonica,
che sembra rappresentare la via preferita del legislatore più recente in
situazioni in cui, di fronte ad una innegabile disponibilità dei diritti in
gioco, esigenze via via diverse consigliano di trattare la materia con
particolare delicatezza.
Insomma, si liberalizza il potere ma lo si vincola
nel contenuto.
Benché l’adeguatezza di una tal soluzione possa
dar adito a perplessità, essa va guardata con favore nel settore laburistico e
amministrativo[xiv], nella misura in cui
sposta le conseguenze della inderogabilità della disciplina dalla
compromettibilità del diritto alla disciplina del procedimento.
Non altrettanto, però, fa il legislatore della legge
delega: la soluzione di continuità sta nel fatto che si consente la scissione,
alla fonte, del nesso fra arbitrabilità
e disponibilità del diritto, salva poi l’introduzione, a contrappeso, del
consueto “arbitrato da legge” [xv].
Le critiche non sono mancate[xvi],
e sono condivisibili, nella misura in cui si fondano sul fatto che l’arbitrato
nasce da un contratto: ne discende che la corrispondenza fra disponibilità del
diritto e compromettibilità della controversia non è altro che l’espressione
della regola dell’autonomia contrattuale. Poiché, a mio sommesso avviso, la
convenzione arbitrale costituisce la fonte dell’intero fenomeno arbitrale,
perché con essa le parti costituiscono in capo a loro medesime l’insieme dei
poteri, facoltà, doveri che compongono il processo arbitrale nel suo complesso,
in concorso con il diritto di azione, è giocoforza ritenere che l’ambito
delle controversie compromettibili sia determinabile nei limiti del principio di
autonomia negoziale[xvii].
Il decreto di attuazione della riforma processuale,
n. 5 del 17 gennaio 2003, prende, come si vedrà oltre, una via diversa da
quella che una lettura dell’art. 12 poteva far presumere.
Dalla lettura combinata delle norme, emerge un sistema binario, per il trattamento dell’arbitrato societario: il criterio discretivo è, appunto, il tipo di convenzione arbitrale.
Un primo tipo nasce dalla clausola compromissoria
contenuta nello statuto o nell’atto costitutivo[xviii],
ab origine, oppure tramite un inserimento successivo ed è anche quello
che costituisce oggetto di immediata e diretta regolamentazione nella
legislazione delegata.
Un secondo tipo nasce da tutte le altre species
di convenzioni arbitrali possibili con riguardo alle “liti societarie”: la
sua disciplina è, invece, più problematica, perché ogni tentativo di
estensione della legislazione delegata si scontra con i limiti imposti dalla
legge delega.
Converrà analizzare in che modo la novella incida
sulla fase genetica dell’arbitrato, con maggiore attenzione alla clausola
compromissoria statutaria, che è poi quella più ricorrente nella prassi, salvo
individuare quali ricadute valgano
per gli altri tipi di convenzione arbitrale societaria. Verranno invece
tralasciati gli aspetti della riforma che incidono più propriamente sul
procedimento arbitrale e sul lodo.
2.- a1) L’art. 34, comma 1°, determina
l’ambito delle controversie compromettibili in
arbitrato “statutario”, facendo riferimento ai diritti “relativi al
rapporto sociale”.
La genericità del rinvio trova specificazione, oltre
che in sede esegetica[xix],
anche, a mio avviso, attraverso il richiamo ad altre disposizioni della novella[xx].
La fonte legislativa dei limiti oggettivi esterni si
ritrova nel combinato disposto degli artt. 12, comma 1°[xxi],
l. delega, - richiamato dal successivo comma 3° dello stesso art.-
e 1, comma 1°, d.lgs. n. 5
del 2003: la seconda norma citata parrebbe proprio una specificazione della
prima.
Dando per ammesso, ovviamente, il mancato sconfinamento del decreto dalla delega, si deduce che oggetto potenziale dell’”arbitrato societario” riformato è rappresentato, prima di tutto, dai tipici rapporti interni alle società commerciali, sia società di persone -ma non, dunque, la società semplice non commerciale -, sia società di capitali.
Dunque, vi sono incluse le controversie più spiccatamente endosocietarie, fra soci e società, (in primis, ma non solo, l’impugnativa di delibere), fra società, soci e/o organi sociali[xxii], fra soci (risarcimento dei danni, acquisto di quote sociali, e così via).
Ma vi è di più. Quando si parla di lite riguardante “l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione” di un rapporto societario, sono compresi i casi in cui sia coinvolto un soggetto almeno formalmente terzo (per es. un preteso socio occulto); questa disposizione è ulteriormente riconfermata dalla successiva specificazione circa i contratti di trasferimenti di quote, o contratti aventi comunque ad oggetto quote o diritti inerenti, a prescindere dal fatto che la cessione sia fatta a terzi o a soci. Inoltre, si include l’azione di responsabilità “da chiunque promossa” nei confronti di organi sociali, dunque anche da terzi; patti parasociali[xxiii], non strettamente circoscritti a soci[xxiv] ed anche relativi ad accordi di collaborazione per la produzione di scambi e di servizi, con riguardo a società interamente possedute dagli stipulanti.
Come si vede, dunque, l’arbitrato societario della legislazione delegata copre un ampissimo raggio di controversie.
Restano fuori, insomma, le liti sui rapporti c.d. di
impresa, che pongono cioè la società al pari di qualunque altro soggetto
operante nel mercato nei suoi rapporti esterni[xxv].
La previsione, oltre a segnare i confini della operatività della riforma, ha un prezioso valore interpretativo nei casi in cui il tenore concreto del patto compromissorio sia generico o i suoi confini siano difficilmente individuabili. Lo spirito della norma potrebbe anche orientare l’interprete verso un generalizzato in dubio pro arbitrato, in casi che restino incerti anche dopo la novella[xxvi].
Per esempio, il raggio di operatività potenziale
della clausola compromissoria contenuta nello statuto della società copre
l’intero ambito oggettivo sopra indicato, quando, come spesso accade, il
tenore della stessa sia generico ed idoneo a comprendere ogni tipo di
controversia societaria[xxvii] -salvo, come si dirà
subito appresso, le liti con gli organi sociali-.
Ciò non significa, ovviamente, che l’arbitrato si
applichi indiscriminatamente per ogni lite rientrante nell’ambito sopra
tratteggiato: varranno, pur sempre, sia i limiti oggettivi del patto arbitrale
stipulato in concreto, come conferma lo stesso art. 34, comma 1°[xxviii],
sia anche e soprattutto quelli soggettivi, per i quali vige la generale regola
di relatività, di cui all’art. 1372, comma 2°, c.c.
Insomma, non soltanto le parti del patto compromissorio possono decidere di limitare le controversie devolvibili in arbitrato, ma resta fermo il principio secondo cui la convenzione arbitrale può avere effetto unicamente nei riguardi di chi abbia manifestato espressa volontà negoziale di accettazione o di chi, presentando particolari requisiti, rientri nelle categorie di terzi alle quali la legge estende eccezionalmente gli effetti del patto arbitrale.
Peraltro, ove, come per le liti riguardanti gli organi sociali[xxix], il legislatore preveda una eccezionale deroga alla necessità dell’espresso consenso, l’interpretazione estensiva dei limiti oggettivi del patto compromissorio non vale, dovendo viceversa farsi espressa menzione delle relative controversie. In sostanza, l’ampliamento ex lege dei limiti soggettivi del contratto compromissorio implica l’impossibilità di adottare un criterio estensivo nella determinazione dell’ambito oggettivo delle liti arbitrabili.
3.- a2) Come si diceva, il
legislatore delegato non prende alla lettera la delega, circa la
possibilità di derogare al canone della disponibilità dei diritti in materia
di società.
Ve ne è chiara conferma nel comma 1° dell’art.
34, ove si ribadisce che le liti devolvibili in arbitrato debbono riguardare
diritti disponibili.
Con il che, non si dice nulla di diverso rispetto al dettato dell’art. 806 c.p.c., se non una più chiara corrispondenza, almeno nell’arbitrato, fra “transigibilità” e “disponibilità”. Potranno dunque essere espunti i riferimenti a norme tipiche della transazione, che prescindono da un diretto collegamento con la suddetta disponibilità [xxx].
Al contempo, però, non si dice neppure nulla di
nuovo rispetto ai venti che si agitano circa l’effettivo significato della
“disponibilità” in tema di diritti sociali.
Purtuttavia, ritengo che vi siano indicazioni, nella
riforma, a favore del riconoscimento di una tendenziale disponibilità e
compromettibilità delle controversie societarie, specialmente con riferimento
alle impugnative di delibere assembleari.
Preliminare a tutto è la risoluzione di un
importante nodo interpretativo, sul quale iniziano già a registrarsi i primi
dissensi -a testimonianza del fatto che il legislatore non è stato in grado di
dare una compiuta chiarezza-.
Al successivo comma 5°, si stabilisce infatti che
“non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie nelle
quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero”[xxxi].
Come armonizzare i due assunti, apparentemente
contrastanti? Infatti, le controversie che hanno ad oggetto diritti disponibili
e quelle nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero
costituiscono due insiemi, il secondo, più ristretto, contenuto nel primo, più
ampio. Non può infatti ritenersi[xxxii],
in linea con la dottrina maggioritaria, che la limitazione relativa ai casi di
intervento del p.m. attenga a diritti disponibili.
La soluzione secondo cui l’uno esclude
automaticamente l’altro non è soddisfacente perché, togliendo significato
normativo all’una o all’altra disposizione, contravviene al canone
ermeneutico secondo cui la legge va interpretata nel senso più idoneo alla sua
portata precettiva[xxxiii].
Per aggirare l’ostacolo, si è proposta una fine
interpretazione del dettato normativo[xxxiv],
secondo la quale la disponibilità di cui parla l’art. 34 comma 1°
conserverebbe una residuale ed assai limitata nicchia di vigenza[xxxv],
una volta tolte dal suo ambito le controversie sulle delibere assembleari,
suscettibili di vertere anche su diritti indisponibili e quelle che coinvolgono
gli organi sociali.
Entrambi i settori di controversie da ultimo
considerati, infatti, sarebbero oggetto di altre previsioni ad hoc (artt.
35, comma 5°, e 36, comma 1°, per
le delibere, ed art. 34, comma 4°, per le controversie riguardanti organi
sociali) che consapevolmente non richiederebbero il requisito della disponibilità.
L’assunto, per un’altra dottrina[xxxvi],
sarebbe ulteriormente confermato, con specifico riguardo alle delibere
assembleari, dalla previsione del divieto di equità e relativa impugnabilità
del lodo per violazione di legge, in conformità con l’indicazione data dalla
legge delega.
Purtuttavia, a prescindere per ora dal problema della
disponibilità o meno delle impugnative di delibere, mi pare che anche questa
esegesi finisca per togliere valore normativo al requisito della disponibilità,
riaffermato dall’art. 34, comma 1°, perché si sottraggono controversie che,
viceversa, rientrano a pieno titolo nell’accezione generale della norma
citata, senza che vi sia una espressa volontà del legislatore in tal senso[xxxvii].
Infatti, non sembra che questa sia l’unica
interpretazione possibile: il coordinamento fra il comma 1° dell’art. 34 e
l’esplicita previsione della compromettibilità delle impugnative di delibera
potrebbe anche interpretarsi nel senso che solo le impugnative di delibere
aventi ad oggetto diritti disponibili siano compromettibili; inoltre, con
riguardo alle controversie concernenti organi sociali vale lo stesso argomento
ove l’amministratore sia, per esempio, socio della società, perché in tal
caso si porrebbe un evidente conflitto fra i commi 1° e 4° dell’art. 34.
Inoltre, il divieto dell’equità, unitamente alla
impugnativa del lodo per errori di diritto si giustificano, a mio avviso, nel
solco delle recenti riforme citate, per la inderogabilità della normativa che
caratterizza alcune materie, come l’approvazione del bilancio[xxxviii].
Un’altra dottrina[xxxix]
ha sostenuto che valga, in contrario, la deroga all’art. 819 c.p.c.[xl]
nella parte in cui consente agli arbitri di pronunciarsi di questioni non
compromettibili pregiudiziali a quella dedotta come oggetto originario del
processo.
A me pare, peraltro, ove si ritenga che la deroga
operi limitatamente alla conoscibilità delle questioni non compromettibili solo
incidenter tantum[xli],
questa previsione costituisca proprio una salvaguardia del principio di
disponibilità delle controversie arbitrabili, nella misura in cui pone una
netta separazione fra oggetto del processo (sempre disponibile) e questioni
pregiudiziali, non suscettibili di accertamento incidentale.
Dunque, per dare un senso al dettato normativo, come
giustamente rilevato, restano due vie.
O si segue quella tradizionale, per la quale
l’ambito delle controversie ad intervento necessario si assorbe in quello
della indisponibilità, come un insieme più piccolo contenuto in uno più
grande[xlii].
Non resterebbe che ritenere che il rinvio al pubblico ministero riveli la volontà
di costituire una sorta di “nocciolo duro” della indisponibilità, sulla
quale non vi siano dubbi circa la non compromettibilità: la questione sul
residuo, insomma, non sarebbe risolta.
Oppure si va più in là attribuendo al comma 5° una
portata definitoria, vale a dire che per “diritti disponibili” debba
intendersi, almeno in questa materia, tutto il settore in cui non è previsto
l’intervento necessario del p.m.
L’ultima via indicata è indubbiamente fascinosa,
perché permetterebbe di spazzare via, in un sol colpo, i dubbi di arbitrabilità
che hanno permeato questo settore, ma non si può nascondere l’inopportunità
delle implicazioni che una definizione di tale portata
susciterebbe in sede di teoria generale; implicazioni che, peraltro,
verrebbero grandemente compresse ove la si ritenesse strettamente limitata al
settore societario.
Quest’ultima esegesi potrebbe essere confermata da
due “indizi”, entrambi riguardanti più specificamente le impugnative di
delibere assembleari.
Il primo si ritrova nei successivi artt. 35, comma 5°
e 36, comma 1°, nella parte in cui ammettono la devoluzione ad arbitri
in via principale di tali controversie
Il dato, lo si è già detto, non è però decisivo,
perché non è in discussione la compromettibilità di tutte le impugnative,
bensì soltanto di alcune
Una indicazione in senso positivo alla
compromettibilità delle impugnative di delibere può invece essere scorta nella
riforma sostanziale delle società ed in particolare nella generalizzata
previsione della conciliabilità della lite, attraverso, se del caso, la
modifica della delibera: a patto che, ovviamente, si postuli la coincidenza fra
conciliabilità e disponibilità[xliii].
Per concludere sul punto, pur mancando una presa di
posizione inequivocabile, alcune spie portano nella direzione della tendenziale
compromettibilità dei rapporti societari e specialmente delle impugnative di
delibere assembleari. Al contempo si conserva la tendenziale corrispondenza fra
disponibilità e compromettibilità, ribadita dalla novella.
Del resto l’arbitrabilità delle controversie
societarie ed in specie delle impugnative di delibere era già desumibile dai
principi[xliv],
a mio sommesso avviso.
Infatti, oggi come ieri, non bisogna confondere
imperatività della normativa con indisponibilità[xlv].
Con riguardo all’impugnativa di delibera, occorre infatti spostare la
prospettiva dalla materia –inderogabile- su cui la delibera incide,
all’oggetto del processo di impugnativa, che consiste nel diritto
all’annullamento e riconoscerne la piena disponibilità attraverso
l’ammissibilità di una transazione della lite[xlvi].
Al contempo, occorre ammettere che gli arbitri
possano conoscere della nullità di un atto, come è ormai riconosciuto con
riguardo al contratto, nonostante il divieto di cui all’art. 1423 c.c.
[xlvii]:
del divieto di convalida della nullità, peraltro, non si trova più il richiamo
nel nuovo testo degli artt. 2379, 2379 bis e ter c.c.
(contrariamente al richiamo di cui all’art. 2379 c.c. nel testo tuttora
vigente), che, anzi, introducono anche per questa categoria di vizi il rimedio
generalizzato della sostituzione della delibera e prevedono, in taluni casi, la
sanatoria.
Inoltre è necessario tenere ben distinti i limiti
soggettivi della legittimazione a disporre con quelli oggettivi della
compromettibilità: quando si afferma che il diritto non è disponibile perché
è coinvolto un interesse della società, si commette, a mio parere, questo
errore, specie quando, come nella clausola statuaria, l’ente è vincolato dal
patto compromissorio[xlviii].
Non ritengo che sussistano ragioni particolari per
vietare la compromettibilità delle impugnative delle delibere del consiglio di
amministrazione, né prima né, a maggior ragione, dopo la novella, una volta
risolto il pregiudiziale problema della impugnabilità di siffatte deliberazioni[xlix].
Infatti, ai sensi del nuovo art. 2388 c.c., viene riconosciuto il diritto di
impugnare sia ai soci, per lesione di un proprio diritto, sia al collegio
sindacale ed agli amministratori assenti e dissenzienti, per contrarietà alla
legge e all’atto costitutivo.
Nessun dubbio sorge[l],
per contro, sulla inammissibilità della clausola compromissoria statutaria, in
tutto l’ampio settore delle società definite dall’art. 2325 bis c.c.,
vale a dire delle società emittenti di azioni quotate in mercati regolamentati,
o con diffusione presso il pubblico in misura rilevante[li].
La scelta, probabilmente fondata sull’esigenza di
tutelare il socio investitore, è stata criticata, perché, troncando
l’arbitrato in un terreno di coltura favorevole, si pone in totale
controtendenza con il trend d’oltreconfine e finisce per sminuire
l’appetibilità dell’arbitrato internazionale italiano[lii].
Ciononostante, non tutto è perduto: se
incompromettibilità non vuol dire necessaria indisponibilità, trattandosi di
corrispondenza univoca, non biunivoca[liii],
la notazione può esser decisiva per ammettere o meno altre forme di arbitrato
societario in quel settore. Se dunque il legislatore non vuole, in questi casi,
l’arbitrato come strumento di tutela del gruppo, nulla impedisce, attesa la
tendenziale disponibilità dei diritti in gioco, che la suddetta opzione sia invocata per una lite
o un fascio di liti specificate, tramite compromesso o clausola
compromissoria non statutaria (per es. nei patti parasociali, o, come ritengo,
anche nelle delibere assembleari con riguardo alle loro impugnative).
Quid se la società nasce “chiusa” e diviene
“aperta” nel corso della sua vita? Il tenore tranchant della norma
non sembra lasciare spazio ad una permanenza in vita del patto compromissorio
per futuri giudizi arbitrali, ma eventuali processi in corso non potranno per ciò
solo estinguersi, a patto che si voglia richiamare, anche per la domanda di
arbitrato, un principio analogo a quello della perpetuatio iurisdictionis[liv].
Non credo che vi sia spazio, sotto questo aspetto,
per il richiamo all’eccesso di delega, in quanto quest’ultima concede al
legislatore delegato di derogare “agli artt. 806 e 808 c.p.c.” e queste
norme contengono le chiavi per l’individuazione dei limiti soggettivi della
clausola compromissoria, nonché per il correlato tema della legittimazione a
compromettere[lv].
Ciò non toglie che i principi fondamentali dell’autonomia privata - soprattutto
dei suoi limiti- e del - correlato
- diritto alla tutela
giurisdizionale svolgano pur sempre il loro ruolo di “guardiani” dei confini
entro i quali il legislatore ordinario può muoversi[lvi].
Il criterio diviene allora quello fondato sulla comparazione degli
interessi in gioco, per valutare quando la deroga al principio di relatività
sia giustificata da un interesse prevalente di particolare pregnanza.
b1) Innanzitutto, la precisazione secondo cui “la clausola è vincolante per la società e per tutti i soci” (art. 34, comma 3°) dovrebbe, se interpretata nel senso più estensivo possibile, sgombrare il campo dalle perplessità sollevate circa la estensione della clausola statutaria ai soci subentrati successivamente all’atto costitutivo, ove manchi una accettazione espressa[lvii], o l’ approvazione specifica di cui all’art. 1341 c.c.[lviii]
Ciò varrà sia per i nuovi soci che aderiscono in
via autonoma al contratto di società[lix],
siaper i soci che assumono tale status, in via derivativa, per effetto
dell’acquisto delle quote per atto inter vivos, o, a maggior ragione,
per gli eredi nei limiti in cui operi la successione mortis causa[lx];
ove il socio sia rappresentato da una società, varranno mutatis mutandis
le medesime regole di successione.
L’interpretazione di massima estensione è
agevolata dal fatto che, anche prima, pur con qualche dubbio, l’orientamento
prevalente era in favore di questa soluzione[lxi].
La disposizione non risolve però il problema della
non coincidenza fra successione e assunzione dello status di socio,
quando cioè l’avente causa o l’erede non subentri nella qualità di socio
attribuita intuitu personae[lxii];
e, più in generale, in tutti i casi in cui il terzo, pur venendo in contatto
con la società, non assume il ruolo di socio in senso stretto. Si pensi per
esempio al mero cessionario di diritti patrimoniali inerenti la quota, per il
quale, a rigore, il limite soggettivo opera benché, da un punto di vista
oggettivo, la clausola statutaria sia in grado di prevedere le controversie che
lo riguardano.
A questo proposito viene in rilievo il successivo inciso, secondo cui la clausola compromissoria è estesa anche a “coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia”.
Si tratta di una norma, direi, “bifacciale”.
Per un verso, mi pare, non innova applicando nel settore specifico il più generale principio di autonomia della clausola compromissoria rispetto al contratto. Altrove ho precisato che autonomia significa totale indipendenza dei due contratti quanto a requisiti e vizi, mentre l’eventuale identità non incide sulla distinzione[lxiii]. Esemplificando, la lite sullo scioglimento del vincolo sociale resta sotto l’egida del patto compromissorio[lxiv], ma basta già la individuazione dei limiti oggettivi della clausola statutaria per affermare l’assunto[lxv].
Per altro verso, invece, va oltre, superando addirittura il principio, pacifico in arbitrato, della Kompetenz-Kompetenz.
Ragionando, appunto, in termini di autonomia della clausola rispetto al contratto sociale, le parti di questa sono innanzitutto quelle che hanno manifestato una volontà negoziale in modo espresso, anche tramite rappresentante (i soci originari o quelli successivi che l’hanno accettata espressamente). In mancanza di espressa accettazione della clausola, ai soci subentrati successivamente, o per successione o per sottoscrizione di nuove quote, la suddetta clausola si estende uti tertii, ieri per esegesi, oggi per disposizione normativa. Il vincolo si estende, ai sensi del comma 5°, proprio perché costoro, pur essendo terzi rispetto alla clausola compromissoria, assumono la status di soci: è questo il fatto generatore dell’effetto estensivo, a tenore della norma.
Il principio della Kompetenz-Kompetenz significa dunque che all’arbitro –come al giudice- è affidato il compito di verificare se, nella specie, si siano realizzati i presupposti per la sussistenza del vincolo arbitrale: o l’accettazione espressa del patto compromissorio o l’assunzione dello status di socio. In difetto di questi requisiti, è costretto a pronunciare il proprio difetto di legittimazione, senza entrare nel merito della controversia, anche quando il suddetto merito consista proprio nella qualità o meno di socio in capo al soggetto[lxvi].
La norma in esame, per contro, opera una ulteriore estensione del vincolo compromissorio non solo a coloro che abbiano effettivamente assunto lo status di socio, ma anche a tutti coloro che, a prescindere dall’esistenza o meno di tale qualità, si trovino legittimati attivi o passivi di una domanda riguardante il predetto status.
Si tratta indubbiamente di una semplificazione
nell’ottica del favor arbitrati, ma qualche esempio può far
riflettere, anche sotto il profilo del suo effettivo raggio di applicazione.
Quid se, a fronte di clausola compromissoria statutaria, il contratto di cessione quote a terzo estraneo alla società non contenga un patto compromissorio e sorga questione sulla nullità del suddetto contratto? Mi pare che rimanga ferma la giurisdizione del giudice ordinario, nella misura in cui oggetto del processo non è lo status di socio ma la validità del rapporto contrattuale di cessione[lxvii].
Più complesso ma affine è il caso della domanda proposta dal socio nei confronti di altro socio e del terzo acquirente la quota sociale, per far valere la violazione della prelazione statutaria[lxviii]. Anche in tal caso occorre sciogliere il preliminare nodo sull’oggetto del processo, perché la norma accorda l’eccezionale estensione soltanto ove lo status di socio inerisca in via diretta al bene della vita richiesto[lxix].
Per contro, stando al tenore della clausola sarà
indubbiamente possibile convocare avanti agli arbitri un terzo di cui si lamenti
la qualità di socio occulto[lxx].
Oppure di cui si invochi lo status di socio solo apparente.
Insomma, salvo l’ultimo esempio citato nel quale può
al limite essere invocato il principio di autoresponsabilità, è vistosa la
deroga al principio di relatività, nella misura in cui si spezza il filo fra status
di socio ed effetti della clausola compromissoria statutaria: deroga che,
indubbiamente, dovrà essere attentamente interpretata alla luce della
concezione costituzionale dell’arbitrato.
Si noti che, stando al tenore della norma, la domanda relativa allo status di socio può porsi anche in via riconvenzionale all’interno di un giudizio già promosso per altro oggetto, con le conseguenze[lxxi] dettate dall’art. 819 bis c.p.c., nel caso in cui di tale giudizio sia investito il giudice ordinario[lxxii]; mentre, qualora in una causa pendente avanti all’autorità giudiziaria, la questione dello status di socio si ponga unicamente incidenter tantum, non sembra esservi problema di legittimazione arbitrale.
b2) Il d. lgs. n. 5 del
2003 prende posizione su una vexata questio e consente espressamente alla
maggioranza di almeno due terzi del capitale sociale, non solo di modificare, ma
soprattutto di inserire ex novo od estinguere la clausola compromissoria
nello statuto, fino alla copertura dell’intero ambito oggettivo delle liti
societarie.
Prima della novella, di fronte al generico dettato
dell’art. 2228 c.c., la dottrina si è per lo più schierata contro la
possibilità, da parte dell’assemblea, di disporre di diritti individuali dei
soci[lxxiii],
mentre la giurisprudenza è stata più oscillante[lxxiv].
Viceversa, con la scelta del legislatore delegato, la “legge del gruppo” tocca, qui, la massima autonomia: il meccanismo di formazione della volontà dell’organizzazione basato sulla maggioranza opera anche con riguardo a diritti personali dei soci quale è il diritto di opzione arbitrale, anche senza il consenso del titolare. La prevista possibilità del diritto di recesso attenua soltanto il sacrificio del singolo nei confronti del gruppo, ma non l’annulla[lxxv].
La violazione del principio di relatività è, ancora una volta, notevole, ma la sua ratio va ricercata nella peculiarità del fenomeno organizzativo, che permea alcuni punti nevralgici della tutela dei diritti (come quello dei limiti soggettivi dell’accertamento); nonché, più specificamente, nel tentativo di isolare, all’interno dell’arbitrato societario, un “arbitrato del gruppo” dalle linee peculiari e più rispondenti alle esigenze dell’organizzazione.
In ogni modo, ritengo corretto ritenere che una
eventuale successiva modifica dello statuto (per es. soppressione del patto) non
possa avere effetto nei confronti di un procedimento arbitrale in corso; ed a
maggior ragione di un processo giudiziale, ai sensi dell’art. 5 c.p.c.
b3) Infine, opportuna è la previsione secondo cui la
clausola si estende agli organi sociali quali amministratori, liquidatori e
sindaci, all’atto dell’accettazione dell’incarico, ove sia specificata la
volontà di compromettere in arbitri controversie che li riguardino.
Pur non essendo parti in senso formale del patto
compromissorio[lxxvii], data l’assenza di
esplicito consenso, l’estensione deriva dalla approvazione dei patti societari
attraverso l’accettazione dell’incarico[lxxviii].
La previsione indubbiamente introduce un caso di
“consenso implicito”, che, ancora una volta, si colloca in bilico rispetto
all’arbitrato obbligatorio: ma non credo che debba necessariamente derivarne
l’illegittimità costituzionale[lxxix],
nella misura in cui non si tratta di mero “consenso presunto”, bensì
l’approvazione specifica viene sostituita dalla accettazione dell’incarico,
che implica sottomissione alla “legge del gruppo”.
E’, insomma, ancora una volta la peculiarità del
fenomeno organizzativo a giustificare una forma di consenso implicito che non può,
però, mai travalicare questo confine.
Così, potrà per esempio esser promossa in arbitrato
l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore (o
degli amministratori), senza che vengano in rilievo i limiti soggettivi del
patto arbitrale.
Piuttosto, ci si può chiedere se analoga previsione
possa valere per i “nuovi”, futuri, organi societari, introdotti con la
novellazione sostanziale, come il “consiglio di gestione” e il “consiglio
di sorveglianza”: sarei incline ad una risposta positiva[lxxx],
attesa la ratio comune e il dettato del nuovo art. 223 septies
disp. att. c.c., introdotto dal decreto di riforma sostanziale delle società[lxxxi].
Dal tenore della norma si deduce, per converso, che, ove si ometta di specificare nella clausola compromissoria che si intendono devolvere ad arbitri controversie riguardanti gli organi sociali, l’amministratore non socio potrà impugnare la delibera davanti al giudice ordinario e sempre a quest’ultimo potrà chiedere il risarcimento del danno derivante dalla sua illegittima revoca.
Quid se, con la facoltà di cui al prossimo punto c),
l’assemblea decide di modificare in tal senso la clausola compromissoria già
contenuta nello statuto? Gli organi sociali hanno accettato l’incarico sulla
base del testo preesistente e credo che, anche volendo restare aderenti allo
spirito di favor che la riforma esprime nei confronti dell’arbitrato, debba
darsi loro, quanto meno, la possibilità di rinunciare all’incarico.
Ci si può chiedere se la legislazione delegata sia
in grado di influire sul grave problema della opponibilità del patto
compromissorio al curatore fallimentare.
Nel silenzio della legge fallimentare, da tempo si dibatte sulla vincolatività dell’opzione arbitrale anche dopo il fallimento e il problema è ulteriormente complicato nel caso in cui il processo arbitrale sia già in corso[lxxxii].
Il decreto non prende alcuna posizione in proposito.
Si potrebbe, certo, avanzare l’idea che i limiti soggettivi delineati
dall’art. 34 siano esaustivi e comportino, a contrario, la tendenziale
inopponibilità del patto compromissorio nei confronti degli organi
fallimentari; ma io credo che, più ragionevolmente, l’intera materia della
procedura di insolvenza sia sottratta all’ambito oggettivo di operatività
della riforma, sia sostanziale sia processuale, per cui il dibattito, de iure
condito, resta aperto[lxxxiii].
La clausola è addirittura sanzionata con la nullità
ove non conferisca il “potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto
estraneo alla società”; salvo il rimedio suppletivo consistente nel ricorso
al Presidente del tribunale del luogo in cui ha sede la società, in deroga alla
competenza individuata dall’art. 810 c.p.c. nella sede dell’arbitrato[lxxxv].
Perplessità nascono sia per la scelta radicale
perseguita dal legislatore, sia per la sanzione prevista.
Sotto il primo profilo, si toglie all’arbitrato una
delle sue maggiori e legittime attrattive, vale a dire la possibilità per la
parte di scegliere il proprio giudice[lxxxvi]
- a prescindere, ovviamente, dagli abusi che la prassi sconta in termini di
parzialità dell’arbitro- . Attrattiva che può legittimamente realizzarsi non
solo nelle liti a due parti, ma anche, almeno in qualche caso, nelle liti
pluralistiche, come per esempio nel caso di raggruppamento delle parti in due
schiere contrapposte, con riconduzione della lite alla struttura binaria[lxxxvii].
Da tempo la dottrina[lxxxviii]
ha individuato la direzione, a mio sommesso avviso, più giusta per risolvere il
problema dell’arbitrato multiparti: la previsione, cioè, di una “clause
parapluie”, sulla falsariga dell’art. 185 legge federale svizzera
sull’arbitrato, che consenta un generalizzato ricorso all’aiuto giudiziario
in caso di impasse; ovvero dell’art. 1444 Ncpc francese, il
quale prevede l’intervento del giudice ordinario ogniqualvolta sorga qualche
difficoltà nella costituzione del collegio “du fait de l’une des parties ou
dans la mise en oeuvre des modalités de désignation”; il § 1034 ZPO tedesca
ha scelto un rimedio più specifico[lxxxix]
e come tale più ristretto, che consente il ricorso al giudice solo ove la
nomina degli arbitri comporti uno squilibrio a favore di una delle parti.
Queste previsioni avrebbero consentito di conciliare
l’esigenza di dare massimo rilievo all’autonomia delle parti, con quella,
altrettanto giusta, di trovare una via d’uscita quando quella stessa autonomia
renda inattuabile il patto arbitrale, nell’ottica di una compiuta flessibilità.
Il legislatore italiano, invece, sceglie un’altra
strada, imponendo la nomina eterodeterminata anche in casi in cui la struttura
“binaria” sarebbe perfettamente operante e prevedendo, sulla falsariga
dell’art. 810 c.p.c., l’intervento del giudice ordinario solo in caso di
omissione della nomina da parte del terzo. Indubbiamente, occorre tenere conto
che la via prescelta è l’unica ad assicurare pienamente il meccanismo
dell’intervento del terzo[xc],
ma anche quest’ultima previsione non costituiva una scelta obbligata, almeno
nei termini generalizzati introdotti[xci].
Sotto il secondo profilo, la scelta va in
controtendenza rispetto al legislatore del 1994, il quale ha sostituito le
originarie sanzioni di nullità con meccanismi suppletivi che consentano
l’attuazione del patto compromissorio anche in mancanza di indicazione del
numero e delle modalità di nomina.
Si è prospettato, in contrario, il richiamo[xcii]
al meccanismo di cui all’art. 1419, comma 2°, c.c., per cui la previsione,
nella clausola compromissoria statutaria, di una diversa modalità di nomina
sarebbe automaticamente sostituita con la nomina eterodeterminata ex lege.
Si tratta indubbiamente di una esegesi “salva-arbitrato”, ma, a parte la
difficoltà di individuare l’ente designante[xciii],
vi osta, secondo l’orientamento più invalso, il difetto di una espressa
volontà normativa a favore della applicazione della suddetta norma[xciv].
Piuttosto, va osservato che la disposizione non torna
a sanzionare il patto compromissorio privo della indicazione del numero e delle
modalità di nomina degli arbitri, bensì, nell’ambito di questo secondo
requisito, si limita a vietare l’eventuale designazione degli arbitri ad opera
delle parti, soci, società o organi sociali.
Sembrerebbe, dunque, che, ove le parti omettano di
indicare numero e modalità di
nomina, possa operare l’art. 809 c.p.c., con conseguente salvezza del patto
compromissorio e ricorso ai meccanismi suppletivi ivi contenuti. In pratica, la
nullità della convenzione arbitrale sarebbe confinata all’unico caso in cui,
a prescindere dalla indicazione o meno del numero degli arbitri, si dettino
espressamente, come modalità di nomina, criteri diversi dall’attribuzione
della designazione a terzi[xcv].
Ci si deve ora chiedere quale sia la sorte di una
clausola che preveda, in via principale, una certa modalità di nomina come il
metodo binario e, solo in caso di difficoltà o liti pluralistiche, contempli la
designazione a terzi secondo la legge. L’inciso “in ogni caso”, se
interpretato in senso letterale, sembra far propendere per l’inammissibilità
di una tale previsione, benché non si possa non rilevare un certo stridore con
la precedente affermazione circa la necessità che le parti indichino generiche
modalità di nomina[xcvi].
Mentre va giustamente riconosciuta la possibilità deferire al terzo la nomina
di un numero variabile di arbitri.[xcvii]
Resta, direi, salva la possibilità per le parti di
designare nominativamente gli arbitri, a
parziale mitigazione della imposizione della nomina eterodeterminata[xcviii],
ma occorre al contempo ricordare le difficoltà che possono sorgere dall’intuitus
personae della nomina, specie quando le liti sorgono a distanza di tempo[xcix].
Inoltre, nessun ostacolo si frappone alla nomina di
un solo arbitro, benché la norma parli al plurale.
Discorso a parte va riservato all’arbitrato
amministrato[c].
Il ricorso ad una istituzione evita infatti ogni
nullità, ove le parti si limitino a rinviare al regolamento senza precisare
alcun criterio per la nomina e quest’ultimo contenga una precisa previsione
circa la possibilità di designazione, per esempio, da parte della stessa
istituzione, in caso di clausola statutaria societaria.
In mancanza di tale specifica previsione,
l’arbitrato sarà comunque salvo, se il regolamento si limiti a prevedere che,
nel silenzio della clausola compromissoria, l’istituzione abbia il compito di
nominare l’arbitro unico o l’intero collegio. E’ il caso, per esempio,
dell’art. 8 del regolamento Cci, dell’art. 5 del regolamento della Camera
arbitrale di Milano, dell’art. 5 del regolamento della Camera arbitrale di
Bologna[ci].
Il problema nasce, invece, ove i meccanismi di nomina
dei regolamenti arbitrali si incrocino con una parziale previsione nella
clausola compromissoria. Si tratta, insomma, di saggiare, caso per caso,
se i criteri di nomina e gli eventuali adeguamenti presenti nella maggior
parte dei regolamenti in caso di pluralità di parti o di altre difficoltà
nella nomina degli arbitri[cii]
si armonizzino con la radicale previsione prevista dal legislatore: vale anche
in questo caso quanto già detto a proposito della clausola che preveda
meccanismi differenziati e concorrenti di nomina.
In altri termini, poiché con il rinvio al regolamento le parti fanno proprio il contenuto del medesimo all’interno del patto arbitrale, una interpretazione rigorosa della norma sembrerebbe non tollerare, come si è già visto sopra, la possibilità che la nomina sia, in via primaria, affidata alle parti, e, solo nel subordinato caso di difficoltà o di arbitrato multiparti, all’istituzione.
In sintesi, se nell’arbitrato ad hoc il
sacrificio dell’autonomia delle parti comporta se non altro la sicura
operatività della clausola, nell’arbitrato amministrato si finisce per
perdere quell’importante “valore aggiunto”, rappresentato dalla possibilità
di coniugare maggiormente la legittima aspettativa della parte di scegliersi il
proprio giudice e l’intervento solo sussidiario dell’istituzione, nel caso
di inerzia, riottosità o conflitti sugli “schieramenti” delle parti in sede
di nomina[ciii].
A prescindere dalla bontà della soluzione, valeva
forse la pena differenziare le due tipologie.
Quid se il terzo designato, pur formalmente estraneo alla
società, non abbia i necessari
requisiti di imparzialità ed equidistanza dalle parti in causa[civ]?
Poiché il principio di eguaglianza delle parti nella nomina degli
arbitri è di carattere sostanziale e deve trovare applicazione anche in questa
ipotesi, la norma non risolve l’impasse:
si ritorna, insomma, a capo di prima.
Il ricorso all’arbitrato amministrato evita in radice il problema, dati i requisiti di indipendenza che caratterizzano le istituzioni accreditate, come le camere di commercio.
Nell’arbitrato ad hoc il rimedio della
ricusazione potrà essere esperito soltanto ove l’arbitro designato si trovi
nelle condizioni di cui all’art. 51 c.p.c.: il difetto di indipendenza
dell’organo designante, insomma, sembra doversi riflettere sull’organo
designato. Altrimenti, si deve valutare con attenzione se il problema possa
esser sollevato in sede di impugnativa del lodo, ma la via è impervia[cv].
6. – Non si deve porre in dubbio[cvi] che, nonostante il difetto di una specifica regolamentazione della legislazione delegata, costretta a rimanere negli angusti confini della legge delega[cvii], oggi come ieri l’arbitrato in materia di società possa nascere da tipi di convenzione arbitrale diversi dalla clausola compromissoria statutaria.
Innanzitutto il compromesso; ma, altresì, la clausola compromissoria contenuta in patti parasociali o in cessioni di quote societarie e finanche –benché il caso possa apparire peregrino- in delibere assembleari, quanto alla loro impugnativa[cviii]. Non, invece, l’introduzione successiva di un patto compromissorio nello statuto della società a maggioranza, che ricade nell’ipotesi della clausola statutaria, pur sopravvenuta[cix].
Il problema è, allora, il seguente. Una volta accertato che la controversia compromessa in arbitri rientra in quelle che costituiscono l’ambito oggettivo di operatività della normativa, occorre verificare se ed in quali limiti la novellazione si estenda, per via diretta od analogica, in quanto, ovviamente, compatibile; o, per contro, operi in toto o in parte il “diritto comune” degli artt. 806 ss.
L’applicazione diretta sembra essere esclusa in radice dall’eccesso di delega[cx], a meno non sia quest’ultima ad essere interpretata in senso estensivo, ma si tratterebbe di una esegesi decisamente contraria al suo chiaro tenore letterale.
Anche l’interpretazione analogica, peraltro, benché risolva il problema della delega, deve essere a rigore negata, ove la disposizione si ponga in termini di eccezione rispetto alla regola, rappresentata, nella specie, dal diritto comune dell’arbitrato[cxi].
Si aggiunga che, ai sensi dell’art. 1 del decreto, si stabilisce che “per quanto non diversamente disciplinato dal presente decreto, si applicano le disposizioni del c.p.c., in quanto compatibili”. Il rinvio, dunque, al diritto comune[cxii] è la regola, sia pure attraverso il prisma della compatibilità.
Per esemplificare, con riguardo alla convenzione arbitrale, tutto depone a favore del ritorno al criterio di compromettibilità dell’art. 806 c.p.c.; ma, ove si riconosca, nel decreto delegato, la definitiva consacrazione della tendenziale disponibilità delle controversie societarie, in specie le impugnative di delibere, questo risultato non può che riflettersi sull’intero fenomeno dell’arbitrato societario, a prescindere dalla fonte che vi dà origine. Una differenziazione, in questo caso, comporterebbe una insanabile contraddittorietà.
Viceversa, come si è già detto, vi sono motivi per ritenere che la restrizione alle società che fanno ricorso al capitale di rischio non vada oltre la clausola compromissoria statutaria: a meno che non prevalga l’esegesi fondata sulla indisponibilità dei diritti appartenenti a questo settore.
I limiti soggettivi non possono, invece, che ritornare al principio di relatività di cui all’art. 1372 c.c.: ma ciò non significa che non debbano valere, anche per questo caso, tutte le conseguenze che possono trarsi dai principi e che la legislazione delegata si limita a sancire espressamente. Alludo, per esempio, alla possibilità di rendere pienamente rilevante la successione e l’acquisto dello status di socio ai fini della operatività del vincolo compromissorio.
Quanto ai criteri di nomina degli arbitri, poi, rivive pienamente l’autonomia delle parti e risorgono dunque le difficoltà dell’arbitrato multiparti, nonché il valido ausilio dell’arbitrato amministrato.
7.- Conviene ora porre in luce, sia pure brevemente,
quali siano le maggiori ricadute della novellazione sulle diverse forme di
arbitrato che le parti scelgono con il patto compromissorio, a seconda della
loro volontà, o della specificità della materia societaria.
a)Il legislatore sceglie, ancora una volta, di non
menzionare l’arbitrato amministrato, ma nessun dubbio, ovviamente, deve
esservi circa il suo utilizzo, in virtù della operatività del meccanismo della
relatio nell’accordo compromissorio: anzi, a ragione si nota che
l’ingerenza normativa della riforma rende più “sicuro” il ricorso alle
istituzioni, rispetto all’arbitrato ad hoc. [cxiii]
Piuttosto, si sono già posti in luce i problemi di coordinamento che desta la disposizione sulla nomina eterodeterminata degli arbitri, tanto che, per sgombrare il campo da ogni dubbio, la soluzione più idonea, - ma non la più opportuna, lo si è già detto -, è quella di una espressa previsione, nei regolamenti, a favore della designazione degli arbitri da parte dell’istituzione.
b) Quanto all’arbitrato irrituale, ve ne è un
cenno nella parte dedicata al procedimento arbitrale (art. 35), per risolvere in
senso positivo la vexata quaestio sulla ammissibilità della tutela
cautelare.
Dunque, sembrerebbe, in via indiretta, riconfermata
l’ammissibilità di una clausola compromissoria o di un compromesso per
arbitrato “non rituale” nelle società. Sennonché la questione è più
complessa di quel che appare a prima vista, almeno con specifico riferimento
alla clausola compromissoria statutaria, che è oggetto diretto della
legislazione delegata.
Indubbiamente, l’accenno all’arbitrato irrituale
costituisce un tentativo di intervenire legislativamente su una prassi
giurisprudenziale, peraltro non univoca[cxiv].
Eppure rischia di rivelarsi un boomerang che moltiplica le già numerose
incertezze che un intervento legislativo frammentato
è in grado di suscitare[cxv].
Il precedente riferimento alla inderogabile -come da
rubrica- impugnabilità del lodo per nullità “formali” (ex art. 829)
e per opposizione di terzo e revocazione potrebbe infatti fondarsi
proprio sulla volontà di ricondurre anche l’arbitrato irrituale a
questo regime, trattandosi, altrimenti, di disposizione superflua perché
ricavabile dal “diritto comune”; la medesima volontà il legislatore avrebbe
espresso con il riferimento nell’ambito della tutela cautelare[cxvi].
L’idea di fondo, favorevole alla riconduzione ad
unitatem dei due tipi di arbitrato è già stata, come è noto, propugnata
da una dottrina in via più generale[cxvii]
ed è stata ripresa, in particolare, nell’arbitrato di lavoro degli artt. 412 ter
e quater[cxviii].
A prescindere dalle perplessità che altra dottrina
ha espresso in proposito, si tratta indubbiamente di una tesi che raggiunge un
pragmatico risultato di semplificazione, ma in questo caso si semplifica solo
parzialmente, perché l’assunto non varrebbe con riguardo all’arbitrato
societario da compromesso o da clausola compromissoria non statutaria[cxix].
In ogni modo, non mi pare che i dati offerti abbiano una forza decisiva per dimostrare la confluenza dell’arbitrato irrituale da clausola compromissoria statutaria all’interno della disciplina riformata, atteso che dell’art. 34, comma 3°, potrebbe anche offrirsi una lettura limitata al settore della ritualità, interna ed internazionale - con capacità innovativa, dunque, nei limiti di questo secondo subsettore[cxx]-. Mentre il richiamo dell’art. 35, comma 5°, al solo arbitrato irrituale da patto compromissorio non statutario si scontrerebbe con la spada di Damocle dell’eccesso di delega.
D’altra parte, i molteplici riferimenti della novellazione alle norme del c.p.c. ed al sistema di “diritto comune” dell’arbitrato rituale possono essere interpretati come il segnale della volontà di limitare l’ambito di applicazione della riforma a questo istituto soltanto, salvo il richiamo dell’arbitrato irrituale ai limitati fini della tutela cautelare.
Peraltro, una prospettiva con cui guardare le
innovazioni legislative potrebbe essere, ovviamente con riguardo alla fase
genetica negoziale, l’art. 1322 c.c. nella elaborazione che una dottrina ha
offerto con riguardo al c.d.
“tipo contrattuale”[cxxi]. Vale a dire, le recenti
riforme potrebbero essere analizzate per verificare se agevolino il superamento
della contrapposizione tipicità/atipicità, attraverso la rottura del nesso fra
volontà di deroga alla disciplina positiva e irritualità del patto
compromissorio; se, cioè, la possibilità per le parti di derogare, nella
convenzione arbitrale, alla disciplina fissata dalla riforma per imboccare la
via dell’arbitrato “atipico” sia o non sia in grado di alterare il “tipo
normativo”[cxxii].
Dal punto di vista della prassi, poi, l’accentuata
“processualizzazione” della riforma potrebbe far rinascere, che piaccia o
no, a nuova vita l’arbitrato irrituale; una volta imboccata questa strada, il
quesito consiste, allora, nella individuazione delle disposizioni che non
possono esser derogate neppure nell’arbitrato irrituale[cxxiii].
Il problema è indubbiamente cruciale, lo ripeto, con
riguardo alle norme relative al procedimento, perché questo rappresenta il
terreno più fertile alla inderogabilità delle nuove disposizioni[cxxiv].
Dovendo limitarmi alla disciplina della convenzione arbitrale, la novella
potrebbe influire nei casi in cui sia espressione di principi generali validi
anche per l’arbitrato irrituale: alludo, per esempio, al vincolo
compromissorio nei confronti dei soci successivamente subentrati; alla
tendenziale compromettibilità delle controversie societarie[cxxv];
mentre più dubbie, ma la risposta negativa non è scontata, sono la possibilità
di introdurre successive clausole compromissorie irrituali a maggioranza, nonché
di ravvedere un consenso implicito nell’accettazione
dell’incarico da parte degli organi sociali.
Difficilmente derogabile, invece, sembra la
previsione della designazione arbitrale eterodeterminata, perché la sanzione
della nullità inquadra questo requisito fra quelli attinenti alla stessa
essenza della clausola compromissoria statutaria e la tipologia di arbitrato che
si vuole scegliere dovrebbe dunque passare in secondo piano: ma può costituire
un precedente contrario l’orientamento della giurisprudenza circa
l’inapplicabilità delle sanzioni di nullità che colpivano il patto
compromissorio rituale nella disciplina ante riforma del 1994[cxxvi]
ed anche post-riforma[cxxvii]
c) Perplessità condivisibili sono sorte sull’impatto
della legislazione novellata nel panorama internazionale, soprattutto per le
potenziali “briglie” processuali che male tollera un cavallo (quasi)
selvaggio quale è l’arbitrato internazionale: specie se si tiene conto
della diffusione dell’arbitrato come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali.
Volendo anche in questo caso concentrare l’attenzione sul patto compromissorio, assoluta preminenza va comunque riconosciuta alle convenzioni internazionali, in virtù dell’art. 832, ult. comma, c.p.c.[cxxviii]
Un punto critico è rappresentato dalla imposizione, a pena di nullità, della designazione eterodeterminata. Poiché in campo internazionale assai frequente è il ricorso alle istituzioni arbitrali, ove l’ arbitrato internazionale sia regolato dalla disciplina italiana, non sembra ci si possa sottrarre alla regola citata e si è già detto in precedenza sui problemi che il rinvio ad un dato regolamento può porre in proposito, specie in presenza di diverse modalità di nomina fra loro concorrenti.
Va invece segnalato, nell’ottica di uno spiccato favor arbitrati, il potenziale sviluppo applicativo, in campo internazionale (ma non solo), dell’inciso secondo cui la clausola compromissoria statutaria si estende anche a colui del quale è contestata la qualità di socio, come oggetto del processo.
La mente va, in particolare, ad alcuni dei casi internazionali in cui si è posto il problema di estensione della convenzione arbitrale ad un terzo, attraverso il richiamo a dottrine come quella, anglosassone, del “piercing the corporate veil”, della apparenza del diritto e così via[cxxix]. La previsione legislativa è però limitata, occorre sottolinearlo, alle controversie “endosocietarie”, sia pure nel senso esteso detto in precedenza.
d) L’arbitrato nelle cooperative desta
peculiari problemi.
L’art. 5 legge 3 aprile 2001, n. 142[cxxx],
n. 463, nel testo originario, prevedeva uno sdoppiamento conseguente alla
pluralità di ruoli del socio: in presenza di clausola compromissoria
statutaria, se la controversia riguardasse il rapporto di lavoro fra socio e
cooperativa, si applicava il complesso sistema ricavabile dagli artt. 416 ter
e quater [cxxxi];
se, invece, riguardasse il rapporto associativo, si rientrava nell’ambito
dell’arbitrato “di diritto comune” (e dunque novellato)
[cxxxii].
Sennonché la legge delega sulla riforma del mercato
del lavoro (n. 30 del 14 febbraio 2003, art. 9), ha ulteriormente modificato
l’art. 5, comma 2°[cxxxiii],
eliminando ogni riferimento all’arbitrato e devolvendo le controversie
concernenti “la prestazione mutualistica” alla competenza del tribunale
ordinario. Alla luce della terminologia adottata nel testo precedente, sembra
dunque che ogni controversia, anche riguardante il rapporto di lavoro, sia
devoluta alla cognizione a rito ordinario e non laburistico; dovrebbe
conseguirne, benché la norma sia silente sul punto, l’attrazione di ogni
forma arbitrale all’interno della novella societaria, visto che gli artt. 412 ter
e quater sono operativi, in modo sistematico, nell’ambito del
settore di competenza del giudice del lavoro (art. 409 c.p.c.).
8.- Quanto, infine, al diritto transitorio, l’art. 41, comma 2°,
fa riferimento al nuovo art. 223 duodecies disp. att. -introdotto dal d.
lgs. n. 6 del 2003, sulla riforma sostanziale delle società e riferito
specificamente alle società cooperative-, prevedendo a contrario che
valga l’obbligo per le società iscritte al registro delle imprese di
deliberare le necessarie modificazioni alla clausola compromissoria statutaria
preesistente, per adeguarla alle “nuove disposizioni inderogabili”.
-entro il trenta settembre 2004, o entro il trenta
dicembre per le cooperative, le società di capitali dovranno[cxxxv]
(art. 223 bis, comma 1°, art. 223 duodecies, comma 1°)
uniformare la eventuale clausola compromissoria societaria con riguardo alle
modalità di nomina, nei limiti detti in precedenza, specie con riguardo al
rinvio ad un regolamento arbitrale; si tratta infatti di una disposizione
inderogabile per effetto della sanzione
prevista, così come lo sono la previsione, in talune specie di controversie,
del metro di diritto e della impugnazione per violazione di legge -ma una
lettura dell’art. 36 comma 1° autorizza a ritenere che l’adeguamento non
debba essere necessariamente adottato, in quanto vale una sorta di “inserzione
automatica di clausole”[cxxxvi]-, nonché la
soppressione della convenzione arbitrale nelle società di cui all’art. 2325 bis
c.c.
-solo se vorranno (arg. dall’art. 223 bis, 2°
ed ult. commi), invece, le società potranno inserire la precisazione in base
alla quale la scelta arbitrale copre le liti con gli organi sociali, nel qual caso deve probabilmente darsi la
possibilità a costoro, quanto meno, di sciogliersi dall’incarico, come già
detto in precedenza.
- l’efficacia delle modificazioni (si deve ritenere non riguardanti norme inderogabili) decorrerà dal momento, successivo all’entrata in vigore della riforma, in cui verranno iscritte nel registro delle imprese, con contestuale deposito del nuovo statuto (art. 223 bis, comma 6°).
- per effetto dell’art. 41, comma 2°, d. lgs. n. 5
del 2003 (il cui riferimento all’art. 34 comma 5° deve intendersi, ritengo,
come richiamo al comma 6°), confermato dall’art. 223 bis comma 2° e
223 duodecies, comma 4°[cxxxvii], c.c., la maggioranza
per l’approvazione delle modifiche per l’adeguamento a disposizioni
inderogabili è quella semplice; o addirittura è possibile la delega agli
organi sociali, ove lo statuto ciò preveda. Né deve ritenersi possibile il
recesso del socio[cxxxviii].
Per le disposizioni derogabili, invece, lo stesso
art. 43 comma 2° parrebbe richiedere quella qualificata (a contrario),
ivi compresa la facoltà di recesso, ma occorre segnalare che l’art. 223 bis
comma 2° c.c. è di tenore contrario.
Si tratta in particolare dei conflitti derivanti da
“stallo decisionale” (c.d. dead lock), con riguardo ai quali si è
esclusa, in passato, l’ammissibilità del ricorso all’arbitrato statutario[cxlii]
e si sono anche espresse perplessità sulla sua riconducibilità
all’arbitraggio[cxliii].
L’art. 37 rimette tutto in gioco ed elimina, fra
l’altro, i problemi della
eseguibilità e vincolatività della decisione che avevano costituito argomenti
per l’inammissibilità di un tale strumento in passato.
Resta il problema della sua classificazione.
Ad una prima lettura, anche letterale, sembra che il
legislatore abbia voluto volontariamente evitare ogni richiamo all’arbitrato
ed abbia voluto introdurre una species di arbitraggio[cxliv],
anche in considerazione dell’espresso richiamo all’art. 1349 c.c.: a
conferma, direi, che l’arbitrato trova spazio esclusivamente nelle liti su
diritti. L’istituto dell’arbitraggio non è, del resto, nuovo in materia
societaria, se già all’epoca di Paolo e Proculo vi è traccia di un arbitrium
diverso dall’arbitrato ex compromisso, destinato a determinare, da
parte del terzo bonus vir, equa ripartizione dei residui a favore dei
soci dopo lo scioglimento della società[cxlv]:
il c.c. vigente ha continuato la tradizione con l’art. 2264 c.c., che dispone
analoga fattispecie nella società semplice, e l’art. 2603 comma 4°, sulla
determinazione delle quote nei consorzi[cxlvi].
In ogni caso, interessante è l’occasione, offerta dalla novella, di combinare insieme l’arbitrato degli artt. 34 ss. e l’arbitraggio dell’art. 37, con evidenti vantaggi di coordinamento, soprattutto nei casi in cui la linea di confine fra i due tipi di controversie non sia così netta[cxlvii]. Si può, cioè, prevedere, nello statuto delle società di persone e a responsabilità limitata, un doppio meccanismo: conferire agli arbitri, oltre che la risoluzione delle liti, anche il potere di risolvere i conflitti di gestione, similmente a quanto accade nella prassi quando all’opzione arbitrale è collegato il potere di rinegoziare i patti contrattuali[cxlviii].
10.- E’ il momento di effettuare un primo bilancio, ovviamente limitato alle innovazioni che la normativa apporta al patto compromissorio societario[cxlix].
Volendo valutare se la novellazione costituisca una valida risposta ai problemi che l’arbitrato societario ha presentato nella sua pratica applicazione, dal punto di vista della sua fase genetica, la risposta è solo parzialmente positiva.
Indubbiamente si fa maggiore chiarezza su alcuni importanti profili, quali l’estensione del vincolo nei confronti di tutti i soci, mentre in altri, quali il problema della compromettibilità, si sarebbe potuto intervenire con maggiore chiarezza.
La giusta intenzione di risolvere i problemi in sede di costituzione del collegio si è spinta fino al sacrificio di un importante atout, quello della scelta del giudice ad opera delle parti.
Ne esce, in senso positivo, la volontà di prendere atto della peculiarità ed autonomia dell’”organizzazione”[cl], rafforzando e legittimando uno strumento di tutela del gruppo[cli] –la clausola compromissoria statutaria- che trae dalla sua funzione la ragione di alcune importanti deroghe ai principi; ma, al contempo, si istituisce un ennesimo “arbitrato da legge”, per giunta non esclusivo del settore, dal quale nascono gravi problemi di coordinamento con il diritto comune.
Insomma, la freccia scoccata dall’arco ha raggiunto
l’obiettivo, ma non l’ha centrato.
[i]
JAEGER, Appunti sull’arbitrato e le società commerciali,
in Giur. comm., 1990, I, p. 220; per una indagine sulla prassi
SILINGARDI, Il compromesso in arbitri nelle società di capitali,
Milano, 1979, p. 8 ss.
[ii]
A titolo di esempio, si è ritenuto che, se
la clausola compromissoria parla di controversie relative alla “efficacia
ed applicazione dell’atto costitutivo”, vada esclusa dalla cognizione
arbitrale la lite riguardante, in sostanza, patti parasociali: Cass.,
19 febbraio 1980, n. 1213, in Giust. civ., 1980, I, p. 1630, su cui
però v. oltre nota 70, perché in realtà la controversia giocava anche
sullo status di socio occulto di un soggetto, per cui si poneva il
problema dei limiti soggettivi del patto compromissorio; Cass., 20 dicembre
1990, n. 12077, in Riv. arb., 1991, p. 577, e
Riv. dir. comm., 1991, II, p. 381, sulla possibilità di
devolvere ad arbitri anche controversie relative alla gestione
imprenditoriale.
[iii]
Si discuteva per esempio sulla compromettibilità delle questioni
riguardanti i patti parasociali: v. ulteriori indicazioni in BORIO, L’arbitrato
nel diritto societario, Milano, 1994, p. 64 ss. FABIANI, Aspetti problematici in tema di arbitrabilità, in Riv.
arb., 1997, p.444. Favorevole App. Bologna, 11 giugno 1994, in Notariato,
1995, I, p. 27 ss. con nota di MAGLIULO.
[iv]
Le posizioni della dottrina sono divise fra posizioni più restrittive, più
estensive (sul criterio della transigibilità DE
FERRA, Clausole arbitrali nel diritto delle società, in Riv. arb.,
1995, p. 193 ss.),
e mediane: fanno leva sull’art. 2379 c.c. (da riesaminare però nel nuovo
testo), ANDRIOLI,
Comm. al c.p.c., IV, Napoli, 1964, p. 763, poi ripresa recentemente
da PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I,
Padova, 2000, p. 258 ss.; sembra in questo senso anche ROVELLI, L’arbitrato
nelle società, in Arbitrato, profili sostanziali, a
cura di G. Alpa, II, Torino, 1999, p.
922.
[v]
Ex plurimis Cass., 24 maggio 1965, n. 999, in Giust. civ.,
1965, I, p. 1575, con nota di GIANNATTASIO; Cass., 18 febbraio 1988, n.
1739, in Foro it., 1988, I, c. 3349 ss.
[vi]
Cass., 30 marzo 1998, n. 3322, in Rep. Foro it., 1998, voce
“Arbitrato”, n. 88; approva JAEGER, op. cit., p. 222;
contra PIERALLI, Arbitrato e bilancio: davvero
incompatibili? in Riv.arb., 1999, p. 131 ss.
RUFFINI, in C.p.c. comm., a cura di C. Consolo e F. P. Luiso, Milano,
2000, p. 3336.
[vii]
Cass., 30
marzo 1998, n. 3322, cit., con riguardo alla delibera che dispone compensi
sproporzionati agli amministratori. Cass.,
10 ottobre 1962, n. 2910, in Giust. civ., 1963, I, p. 29;
contra DE FERRA, op. cit., p. 194. Per l’azione di revoca
dell’amministratore sfavorevole all’arbitrabilità è Cass., 18 febbraio 1988, n. 1739, in Foro it., 1988, I, c. 3349.
[viii]
Analizzato poi sotto il più particolare profilo della esclusione del socio
nella società a due: da ultimo per riferimenti SOLDATI, in Arbitrato e
procedure di conciliazione nelle controversie societarie, Le
monografie di Diritto e pratica delle società, 1, Milano, 2003, p. 45
ss. La giur. sembra oggi favorevole alla arbitrabilità, ma non sono mancati
contrasti: pro Cass., 3 agosto 1988, n. 4814, in Foro it.,
1989, I, c. 2042 ss. Trib. Roma 26 marzo 1994, in Riv. arb., 1995, p.
457 ss. con nota conf. di BORIO; contra Cass., 20 aprile 1985, n. 2611 in Società,
1985, p. 963 ss.
[ix]
C. app Firenze. 31 gennaio 2001, in Riv. arb., 2002, p. 315 ss., con
nota diff. Di FUSILLO, in un caso di controversie fra soci circa il
risarcimento del danno dell’uno nei confronti dell’altro per
depauperamento della società, nel quale si è ritenuta la
incompromettibilità della lite, in quanto coinvolgente la società.
[x]
Il meccanismo binario è fondato sulla possibilità, per ciascuna delle due
parti, di nominare un arbitro, mentre il terzo viene solitamente nominato
dai due arbitri designati dalle parti, o da un organismo terzo. Sul problema
dell’arbitrato con pluralità di parti, con riguardo alla costituzione del
giudice arbitrale, v. fra gli altri SALVANESCHI,
L’arbitrato con pluralità di parti, Padova, 1999, p. 163 ss.
[xi]
Cass., 21 ottobre 1980, n. 5635, in Giur.it., 1981, I, 1, c. 42 ss.
con nota di .............. e in Giur. comm., II, 1981, p. 394 ss. (benchè
poi la giur. salvi comunque la previsione non riconducendola al fenomeno
arbitrale, per cui occorre saggiare la resistenza di questa previsione con
la novella sull’arbitrato societario: v. sul punto GUIDOTTI, in Arbitrato
e procedure di conciliazione nelle controversie societarie, cit., p.
43); cfr., anche per ulteriori citt. CABRAS SILVESTRI, Dizionario
dell’arbitrato, con prefazione di N. Irti, Torino, 1997, p. 61 ss.;
BORIO, op. cit., p. 55 ss.; PAOLUCCI, Le clausole di
deferimento delle controversie sociali ai probiviri, in Società,
1993, p. 1040 ss. , spec. p. 1430.
[xii]
Per l’inammissibilità, ex plurimis, Cass., 3 maggio 1984, n. 2680,
in Foro it., 1984, I, c. 1836 ss.; e in Giur. comm., 1986, II,
p. 26, nota critica di SILINGARDI, L’arbitrato in materia societaria e
la “linea di maggior rigore”.
[xiii]
Cass., 14 settembre 1991, n. 9604, in Riv. arb., 1992, p. 261 ss.,
con nota di ROSI.
[xiv]
Alludo, per quanto riguarda la materia laburistica all’art. 808 c.p.c.,
nonchè, benchè il tenore della norma non sia così chiaro, all’art. 412 ter
e quater; per quanto riguarda la lesione dei diritti soggettivi da
parte della p.a., è riconosciuta l’arbitrabilità anche in giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, salvo i temperamenti di cui si diceva,
dalla l. n. 205 del 2000.
[xv]
Secondo l’efficace definizione di BRIGUGLIO, Gli arbitrati obbligatori
e gli arbitrati da legge, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, p.
86 ss.; ancora diversa è una terza forma di arbitrato, “a forma
obbligatoriamente amministrata”, tipica della materia degli appalti
pubblici per effetto della l. n. 415 del 1998 e successivo d.p.r. n. 554 del
1999 con annesso d.m. lavori pubblici n. 398 del 2000, benché anche in
questo caso vi sia una forte regolamentazione legislativa, a discapito
dell’autogestione camerale (BORGHESI, La camera arbitrale per i lavori
pubblici: dall’arbitrato obbligatorio all’arbitrato obbligatoriamente
amministrato, in Corr. giur., 2001, p. 682 ss.; BIAVATI, Gli
arbitrati nei lavori pubblici: la procedura, in questa rivista, 2002, p.
31 ss.).
[xvi]
RUFFINI, Arbitrato e disponibilità dei diritti nella legge delega per la
riforma del diritto societario, in Riv. dir. proc., 2002, p. 145
ss.; CRISCUOLO, L’opzione arbitrale nella delega per la riforma delle
società, in Riv. arb., 2002, p.
45 ss.; esprime perplessità anche LUISO, Appunti sull’arbitrato
societario, in www. judicium.it, p. 4; M. RESCIGNO, in Sezioni
distrettuali commerciali e riforma del processo civile, in Le società,
2000, p. 184; A.M. BERNINI, in Arbitrato e procedure di conciliazione
nelle controversie societarie, cit., p. 30 s., pone l’accento
sulla inidoneità di utlizzare l’arbitrato vincolato come contraltare per
la deroga alla disponibilità.
[xvii]
Il nesso fra disponibilità dei diritti e compromettibilità non significa
che il patto compromissorio vada inteso come atto di disposizione del
diritto, al contrario: si tratta infatti di una corrispondenza che ha il suo
fondamento non nel significato di disposizione in senso stretto
(alienazione, estinzione, riduzione), ma in senso ampio, nel senso di
esercizio del diritto di autonomia privata, poiché anche il patto
compromissorio è un contratto, in particolare costitutivo di diritti. Non
bisogna dunque confondere disponibilità in senso stretto con disponibilità
in senso ampio (sul punto chiaramente MENGONI REALMONTE, voce Disposizione
(atto di), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 192 nota 12).
E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in questa rivista, 2003,
par. 2 di cui ho potuto
consultare le bozze in corso di pubblicazione, prospetta una diversa
soluzione, ritenendo che la compromettibilità possa venir disgiunta dalla
disponibilità del diritto, ove si sia disposti ad accettare il fatto che la
convenzione arbitrale abbia come oggetto la mera scelta di un giudice
(diverso da quello offerto dallo Stato) e pertanto l’operazione negoziale
si limiti a questo solo aspetto dello strumento arbitrale, mentre sugli
altri profili dell’arbitrato, ivi comprese le materie compromettibili, si
esulerebbe dall’attività contrattuale dei privati.
[xviii]
Non sembra esservi una differente normativa, anche perché, come rileva
LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., p. 2, l’art.
2328, comma 3°, c.c., nel nuovo
testo riformato, sancisce la prevalenza dello statuto sull’atto
costituitivo in caso di clausole contrastanti.
[xix]
Cfr. LUISO, op. cit., p. 5 che fa riferimento all’analoga
esperienza dell’art. 409 c.p.c.
[xx] Ritengo cioè che l’esatta individuazione delle materie che la riforma processuale delle società ha inteso disciplinare permetta, ad un tempo, di determinare il massimo ambito di liti che possono essere incluse nella tutela arbitrale del “gruppo”, (come efficacemente la definisce E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., par. 2 ss.), che ha, come tale, una aspirazione totalitaria (benché derogabile).
[xxi]
Che parla genericamente di “diritto societario” ivi compresi peraltro i
patti parasociali e il trasferimento delle partecipazioni.
[xxii]
La restrizione soggettiva dell’art. 34, comma 1°, alle sole controversie
fra soci o fra soci e società, mi pare integrabile per effetto del
coordinamento con le norme citate in precedenza, anche in considerazione
dell’art. 34, comma 4°; in senso contrario
E.F. RICCI, op .ult. cit., n.
2 propende per una interpretazione letterale e restrittiva degli artt.
34 ss. senza alcun riferimento all’art. 1 del d. del.: rinvio sul punto al
prossimo n.
[xxiii]
Contra E.F. RICCI, op. loc. ultt. citt., sull’assunto che si
tratterebbe di materia estranea alla “legge del gruppo”. Ma a me sembra
che, da un lato, tale estraneità sia contraddetta dalla legge di riforma
sostanziale, che, nel disciplinare positivamente i patti parasociali, dà
loro un ampio rilievo all’interno della gestione societaria, consentendo
loro di influire sulla vita della società; d’altro lato mi pare che il
combinato disposto dell’art. 12 legge delega e art. 1 del d. lgs. portino
alla conclusione di includere nell’arbitrato societario anche questo
settore.
[xxiv]
Ma coinvolgenti anche terzi, visto che la norma sui patti parasociali è
generica, come già lo era l’art. 122 d.lgs. n. 58 del 1998 (tuf): per una
esemplificazione, D’ERRICO, in Disciplina delle società con azioni
quotate, in Nuove leggi civ. comm., 2001, 1, p. 79
(per es. con riguardo a chi acquista strumenti finanziari che gli
danno il diritto di acquistare azioni).
[xxv]
Salvo ciò che si dirà nella prossima nota.
[xxvi]
Mi riferisco per esempio al caso esaminato da Trib. Milano, 26 luglio 1999,
in Dossier di Guida al dir., n. 7 del 1999, p. 75, cit. anche da
CABRINI, Comm. breve al c.p.c., Comp. giur., Padova, 2002, p. 2070,
che ha escluso dalla cognizione arbitrale la domanda di un socio diretta ad
ottenere il rimborso di un finanziamento effettuato a favore della società;
più in generale il problema può porsi in tutti quei casi in cui la
dottrina suole parlare di socio uti terzo nei confronti della società.
Il favor nei confronti dell’arbitrato, in sede esegetica, va
controcorrente rispetto all’orientamento generalmente adottato dalla giur.:
v., in motivazione, Cass., 20 dicembre 1990, n. 12077, in Società,
1991, p. 761 ss. con nota di ROVELLI, anche per il caso esaminato dalla
Corte, che rientra in quei casi “incerti” di cui sto parlando (nella
specie era stata devoluta ad arbitri una controversia fra soci, in merito
però ad un atto concernente la gestione societaria, si lamentava cioè il
risarcimento del danno per mancata esecuzione da parte di un socio di un
contratto di mutuo fondiario avente ad oggetto i beni di proprietà dei soci
e gestiti dalla società).
[xxvii]
Andrebbe così risolta diversamente –ma, probabilmente, avrebbe dovuto
esserlo in ogni caso- la questione se rientri nella accezione
“controversie tra soci” la controversia fra un socio e un soggetto terzo
circa l’accertamento del suo status di socio. Mi riferisco al caso
di Cass., 19 febbraio 1980, n. 1213, cit., su cui, amplius, la nota
70.
[xxviii]
Poiché nulla vieta che le parti decidano di deferire solo alcune delle
controversie societarie.
[xxix]
Infra, par. 4.
[xxx]
Mi riferisco, per esempio, al dibattito sull’applicazione dell’art. 1972
c.c. come argomento contro la compromettiiblità della questione di nullità
del contratto, che nulla ha a che fare con la disponibilità dei diritti: v.
sul punto VERDE, in Diritto dell’arbitrato rituale, a cura di G.
Verde, 2° ed., Torino, 2000, p. 63, il quale risolve il problema
differenziando, a ragione, fra arbitrato e transazione.
[xxxi]
Si tratta per es. degli artt. 2409 c.c., anche nel nuovo testo ma solo
limitatamente alle società che fanno ricorso al capitale di rischio (per
cui per le altre si apre il problema della disponibilità del diritto
controverso), 2436, comma 4°, c.c.
nuovo testo, 2446, comma 2°, c.c. nuovo testo, 2487, comma 4°, c.c. nuovo
testo. Pacificamente si escludeva prima della novella la arbitrabilità
della lite di cui all’art. 2409 c.c.: ROVELLI, in Arbitrato, profili
sostanziali , II, cit., p. 933 ss.
[xxxii]
Sul collegamento fra indisponibilità e intervento necessario del p.m. PUNZI,
Disegno sistematico, cit., I, p. 225; LA CHINA, L’arbitrato, il
sistema, l’esperienza, 2° ed., Milano, 1999, p. 24; VELLANI, Il
pubblico ministero nel processo, II, Bologna, 1970, p. 614 ss. e 622 ss.,
distingue fra i casi in cui il diritto è indisponibile di per sé, e quelli
in cui è appunto la previsione dell’intervento necessario a trasformare
il diritto da disponibile ad indisponibile: non vi sarebbe comunque alcuna
conseguenza, perchè l’intervento del p.m., comportando l’indisponibilità
del diritto, ricadrebbe comunque all’interno del più ampio insieme dei
“diritti indisponibili”. Per superare l’assunto occorrerebbe infatti
ritenere che l’intervento del p.m. faccia conservare al diritto la sua
natura disponibile: in tal senso sembra BERLINGUER, La compromettibilità
per arbitri, II, Torino, 1999, p. 113, che fa l’esempio della falsità
del documento transigibile con l’approvazione del p.m.
(ma nell’esempio proposto, la spia dell’indisponibilità deriva
proprio dal fatto, a mio avviso, che la transazione non è liberamente
ammessa).
[xxxiii]
FAZZALARI, op. cit., p. 444 sostiene invece che il comma 5°,
sull’intervento del p.m., prevalga rispetto al comma 1° e stia a
significare che solo un ambito ristretto di controversie indisponibili sia
sottratto alla legittimazione arbitrale: ma, a mio sommesso avviso, in
questo modo si finirebbe per derogare al chiaro dettato del primo comma.
[xxxiv]
E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., n. 2, ritiene
anch’egli che il decreto delegato abbia, in applicazione della legge
delega, “sfondato” il muro della disponibilità ed abbia ammesso
l’arbitrato in materie non disponibili, come la nullità delle delibere
assembleari (mentre parla di relativa indisponibilità per le impugnative di
annullamento). Scinde poi le controversie promosse da amministratori,
liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti, da quelle del comma 1°
dell’art. 34, deducendo quindi che non varrebbe per loro il requisito
della disponibilità.
[xxxv]
Vale a dire in materia di nullità della società.
[xxxvi]
MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione nella riforma del processo societario,
in www.judicium.it, p. 9
[xxxvii]
Mi pare anzi che il coordinamento con la legge delega, e, per la sua via,
con l’art. 1 del decreto delegato, stia ad indicare che l’art. 34 comma
1°, nel parlare genericamente di controversie relative “al rapporto
sociale” , vi includa in via generale le liti di cui all’art. 1, nn. a),
b), c), ivi comprese quelle coinvolgenti gli organi sociali e
le delibere assembleari.
[xxxviii]
Anzi, in contrario rispetto alla interpretazione surriferita depone il fatto
che la cognizione incidenter tantum in deroga all’art. 819 c.p.c.
di materie non arbitrabili è posta in contrapposizione a quella delle
impugnative di delibere, quasi a voler dimostrare che queste ultime
attengono sempre a diritti disponibili.
[xxxix]
Ritenendo che la deroga all’art. 819 si ponga in senso tranchant
rispetto al principio di disponibilità, perché in sostanza vi aprirebbe
una larga falla (FAZZALARI, op. cit., p. 444).
[xl]
Per la verità, il divieto per gli arbitri di conoscere della questione non
compromettibile, neppure incidenter tantum, non è espressamente
deducibile dall’art. 819 c.p.c., ma ne costituisce piuttosto una esegesi,
sia pure largamente condivisa in dottrina. Pro infatti DANOVI, La
pregiudizialità nell’arbitrato rituale, Padova, 1999, p. 125 ss.:
CARPI, Il procedimento dell’arbitrato riformato, in Riv. arb.,
1994, p. 666 (il quale però auspica l’opportunità della decisione incidenter
tantum) ; G.F. RICCI, in Arbitrato, a cura di F. Carpi, Bologna,
2001, p. 349; LEVONI, La pregiudizialità nel processo arbitrale,
Torino, 1975, p. 119 s.; contra LUISO, Diritto processuale civile,
IV, 3° ed., Milano, 2000, p. 344 ss.; esprime perplessità sulla lettura
restrittiva LA CHINA, L’arbitrato, cit,, p. 95.
[xli]
Le stringate osservazioni del testo presuppongono, come è evidente, lo
scioglimento di alcuni nodi interpretativi che la riforma offre in
proposito. L’art. 35, comma 1°, stabilisce infatti che nel procedimento
arbitrale non si applica il primo comma dell’art. 819 c.p.c. e al
successivo art. 36 impone certe modalità di impugnativa del lodo e di metro di
giudizio degli arbitri nel caso in cui gli arbitri “per decidere abbiano
conosciuto di questioni non compromettibili”. Ora, stando alla prima
norma, sembrerebbe aversi questa situazione: l’oggetto della domanda di
arbitrato che dà impulso al processo è pienamente compromettibile,
altrimenti non vi sarebbe luogo a pronuncia; di poi sorge una questione non
compromettibile (per legge), che gli arbitri debbono risolvere
necessariamente per giungere alla decisione. Il caso più semplice è quello
in cui non vi sia domanda di parte: in tal caso, infatti, l’esclusione
dell’art. 819, comma 1°, c.p.c. fa sì che si torni alla disciplina
“ordinaria”, che riguarda anche questioni pienamente compromettibili ma
non incluse nei limiti oggettivi del patto compromiaaorio, vale a dire, ai
sensi dell’art. 819, comma 2°, (richiamato a contrario dal
legislatore delegato) gli arbitri ne conoscono incidenter tantum. Se
invece la questione diviene oggetto di domanda di parte, trasformandosi in causa,
ci si deve innanzitutto chiedere se si tratti di una lite rientrante nel
compromesso, altrimenti vi è la necessità dell’accordo (anche implicito)
delle parti; superato anche questo ostacolo, il nodo problematico sta
appunto in ciò che è dubbio se il legislatore delegato abbia inteso
derogare al limite della compromettibilità-disponibilità anche con
riguardo all’accertamento incidentale. L’art. 36, nel parlare di questioni
insorte al fine di decidere sull’oggetto del processo, unitamente al
richiamo alla disponibilità dei diritti, sembrerebbe sciogliere il nodo in
senso favorevole al divieto di cognizione, in una con l’art. 34, comma 1°.
In contrario opererebbe invece l’espressa deroga al comma 1°
dell’art. 819 c.p.c. ove si dovesse accedere all’interpretazione più
restrittiva di quella norma, cioè l’obbligo di sospensione solo nel caso
in cui gli arbitri si trovino di fronte ad un accertamento incidentale,
perché è evidente che la deroga riguarderebbe questa sola ipotesi, per cui
la pronuncia incidenter tantum sarebbe già ricavabile dal sistema,
mentre l’obbligatorietà di sospensione verrebbe meno con riguardo
all’accertamento incidentale e gli arbitri finirebbero per poter spezzare,
sia pure per questa strada, il nesso fra disponibilità ed arbitrabilità
(venendo, poi, in rilievo il problema del coordinamento con l’art. 295).
Ma, va detto, accedendo alla tesi, suggerita nel testo, della tendenziale
disponibilità ed arbitrabilità delle controversie societarie, la norma
avrebbe una applicazione assai limitata (cfr. BIAVATI, Il procedimento
nell’arbitrato societario: prime riflessioni, in corso di
pubblicazione in questa rivista, 2003, che ho potuto leggere in bozze, par.
6 in fine). In senso difforme, in coerenza con la premessa fondata sulla
possibilità di arbitrato su diritti indisponibili, E.F. RICCI, Il nuovo
arbitrato societario, cit., n. 5 ritiene che l’art. 35, comma 3°,
vada interpretato con la maggiore ampiezza possibile, perché gli arbitri
potrebbero occuparsi, sia incidenter tantum sia principaliter,
di diritti indisponibili.
[xlii]
E’ la via seguita da LUISO, Appunti
sull’arbitrato societario, cit., p. 5.
[xliii]
Cfr. per una netta corrispondenza MONTESANO, ARIETA, Diritto processuale
civile, II, 3° ed., Torino, 1999, p. 107; LUISO, in CONSOLO, LUISO,
SASSANI, Comm. alla riforma del processo civile, Milano, 1996, p.
140; più dubbiosi, per una
apertura verso la indisponibilità relativa, COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni
di dir. proc. civ., 2° ed., Bologna, 1998, p. 590 (fanno l’esempio
del rito del lavoro ovvero della separazione fra coniugi); BRIGUGLIO, voce Conciliazione
giudiziale, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., III,
Torino, 1988, p. 226 s.
[xliv]
Per gli evidenti limiti di questa trattazione, debbo rinviare alle più
ampie considerazioni contenuto nel lavoro in fase di elaborazione su “La
convenzione arbitrale nei confronti dei terzi”.
[xlv]
DE FERRA, Clausole arbitrali nel
diritto delle società, in Riv.
arb., 1995, p. 193; Trib.
Milano, 29 gennaio 1998, in Giur. it., 1998, I, 1, c. 69 ss. con nota
di MURATORE; l’intuizione va ricondotta, in materia laburistica, a SANTORO-PASSARELLI, Sull’invalidità delle rinunzie e
transazioni del prestatore di lavoro, in Giur. compl.
Cass. civ., II, 1948, p. 53 s. il quale notava che la transazione
può vertere su diritti disponibili, benchè al contempo sia annullabile
perché avente ad oggetto diritti derivanti da normativa inderogabile (e
solo perché la legge contempla una tale sanzione).
[xlvi]
G.E. COLOMBO, Non
transigibilità dell’impugnativa di bilancio, in Le società, 1997, p. 1153 ss.
[xlvii]
V. le giuste osservazioni di G. VERDE, in Diritto dell’arbitrato
rituale, a cura di G. Verde, cit., p. 63. L’argomento contrario si
fonda anche sull’art. 1972 c.c., che, come si è detto in precedenza, non
potrebbe più essere invocato in materia societaria, in quanto tale, ma solo
in quanto “spia” di indisponibilità.
[xlviii]
Cfr. nota 9.
[xlix]
Cfr. sul punto BERLINGUER, op. cit., p. 220 ss.
[l]
Non c’è infatti alcun eccesso di delega, a mio parere, date le ampie
facoltà di deroga concesse dalla legge delega, proprio in relazione ai
criteri di compromettibilità delle controversie.
[li]
Esattamente Cfr. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., p.
2. rileva che la misura rilevante si determina sulla scorta dell’art. 111 bis
disp att. (introdotto ex novo) con riferimento all’art 116 d.lgs.
n. 58 del 1998, che affida il compito alla Consob.
[lii]
Il punto è stato sollevato in occasione del Convegno tenutosi a Roma il 7
novembre 2002, dall’Associazione italiana per l’arbitrato, i cui atti
sono in pubblicazione (se ne può leggere un resoconto su www.cciitalia.org/novembre-dicembre2001.pdf.
[liii]
L’assunto richiede una precisazione. Ai sensi dell’art. 806, infatti, si
instaura una equiparazione fra intransigibilità e incompromettibilità, per
cui il divieto di arbitrato in materie transigibili sembrerebbe violare
questo canone. Purtuttavia, il fatto che si possa limitare l’arbitrato
anche all’interno del settore dei diritti disponibili sembra dedursi, a
contrario, dall’art. 819 c.p.c., il quale parla di materie non
compromettibili “per legge”, ove quell’inciso fu inserito proprio per
ricomprendere, accanto all’art. 806 c.p.c., tutti quei casi non coperti
(com’era fino alle recenti riforme l’arbitrato nella locazione ex
l. 392/78, poi successivamente modificata sul punto) dalla indisponibilità,
eppur oggetto di limitazione da parte del legislatore (cf.r sul punto
RAMPAZZI GONNET, in CARPI, TARUFFO, Comm. breve al c.p.c., sub art.
819, Padova, 3° ed. 1994, p. 1560, la quale commenta così la modifica
effettuata dalla l. n. 25 del 1994).
[liv]
Sul riconoscimento dell’effetto della litispendenza in capo alla domanda
di arbitrato, BORGHESI, in Arbitrato, a cura di F. Carpi,
Bologna, 2001, p. 225 ss.
[lv]
Su cui mi permetto di rinviare al mio Note sulla legittimazione a
compromettere, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, p. 1158 ss.
[lvi]
RUFFINI, Arbitrato e disponibilità dei diritti nella legge delega per la
riforma del diritto societario, loc. cit.,
pone soprattutto l’accento sulla necessità di rispetto dell’art.
24 Cost.
[lvii]
Richiedeva l’accettazione espressa e la forma scritta, ANDRIOLI, Comm.,
IV, cit., p. 788.
[lviii]
Quanto alla necessità di approvazione specifica ex art. 1341 c.c.,
qualche dubbio è rimasto in dottrina: cfr. ANDRIOLI, op. ult. cit.,
p. 789, che la richiede solo per il caso dell’ingresso del nuovo socio e
non per la successione inter vivos; PUNZI, op. cit., I, p. 205
ss.; mentre la giurisprudenza sembra ormai attestata su posizioni negative,
Cass., 7 ottobre 1991, n. 10444, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 1072;
Cass., 18 febbraio 1985, n. 1367, in Dir. fall., II, p. 344; conf.
PLENTEDA, Arbitrato e società, in Rass. arb., I, 1989, p. 2.
[lix]
Cfr. Cass., 18 febbraio 1985, n. 1367, cit., salvo dichiarazione espressa di
aver visto e voler osservare le norme statutarie. In argomento cfr. CARLEO, Le
vicende soggettive della clausola compromissoria, Torino, 1998, p. 106
ss.
[lx]
La soluzione era stata già pacificamente accettata in precedenza: cfr.
PUNZI, Disegno, cit., I, p. 554 ss. Quanto alla successione mortis
causa, riconosce l’automatico subentro senza necessità di
accettazione espressa: Cass. 22 giugno 1982, n. 3784, in Rep. Foro it.,
1982, voce “Successione ereditaria”, n. 25; ROVELLI, in L’arbitrato,
profili sostanziali, cit., p. 896. V. però la nota 55.
[lxi]
Cfr. le note precedenti.
[lxii]
Si tratta di un problema dibattuto in passato anche con riguardo alla
successione mortis causa: cfr. CARLEO, in Profili sistematici
dell’arbitrato, a cura di G. Alpa, II, Torino, 1999, p. 716; in
pratica si discuteva sulla possibilità di ritenere estesa la clausola
compromissoria anche agli eredi, a prescindere dalla effettiva assunzione
dello status di socio: per la positiva, nel senso che basta la
successione senza che si assuma anche lo status di socio SCHIZZEROTTO,
Dell’arbitrato, Milano,
1988, 3° ed., p. 192; contra VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema
del processo civile, Milano, 1971, p. 340; Con riguardo alla successione
a titolo particolare, proprio in un caso in cui l’avente causa non aveva
assunto lo status di socio, caratterizzato dall’intuitu personae,
Cass., 17 settembre 1970, n. 1525, in Rep. Foro it., 1970, voce
“Arbitrato”, n. 35, che ritiene che la clausola compromissoria si
estenda alla controversia che lo coinvolge circa la liquidazione della
quota. Contra, con riferimento alla successione universale, Cass., 30 marzo
1949, n. 730, in Rep. Foro it., 1949, voce “Società”, n. 254, in
una fattispecie nella quale gli eredi erano stati rinnegati come soci ed
erano dunque semplici creditori. V. anche Trib. Lagonegro, 23 settembre
1969, in Giur. it., 1970, I, 2, c. 1058, citato alla nota 64.
[lxiii]
PUNZI, op. cit., I, p. 440 ss.; cfr. sul punto anche FESTI, La
clausola compromissoria, Milano, 2001, p. 38 ss.
[lxiv]
Conf. LUISO, op. cit., p. 7, proprio con riguardo ai fatti estintivi
della qualità di socio. Per la verità, occorre distinguere il caso della
controversia sull’uscita del socio, o a
maggior ragione, su fatti pregressi alla sua uscita (Trib. Lagonegro,
23 settembre 1969, in Giur. it., 1970, I, 2, c. 1058, in un caso in
cui la controversia riguardava un socio e gli eredi dell’altro, circa un
credito del defunto scaturito dal rapporto sociale), con quella relativa a
fatti (e diritti) successivi alla sua uscita, che lo coinvolgono uti
terzo, perché in questo secondo caso la soluzione è più problematica. Si
è infatti affermato che quando
il socio è già uscito -per
es. per esclusione- per le altre controversie non si applica più; Cass. 18
dicembre 1978 n. 6053, in Rep. Foro it., 1978, voce “Arbitrato”,
n. 32 (nella specie restituzione dell’alloggio assegnato al socio prima
della sua esclusione: nella specie però è dubitabile che la controversia
non traesse occasione dai fatti pregressi all’esclusione, perché
l’assegnazione era avvenuta in funzione dello status di socio).
[lxv]
V. par. 2. Si è infatti paventata l’idea che il socio uscente, perdendo
tale qualità, non sia più soggetto neppure alla clausola compromissoria (cfr.
FESTI, in Arbitrato e procedure di conciliazione nelle controversie
societarie, cit., p. 38, ma, giustamente, in senso critico).
[lxvi]
Il meccanismo è indubbiamente farraginoso, ma discende dal fatto che la
questione di diritto sostanziale rileva ad un tempo come questione
processuale circa la legittimazione degli arbitri. Come è stato esattamente
notato, non può inferirsi dal solo fatto della dedotta e, come tale, solo
presunta inesistenza del contratto, la mancanza di legittimazione degli
arbitri a giudicare su tale questione, ma deve esattamente ritenersi che
spetta loro valutare innanzitutto se all’inesistenza del contratto
corrisponda anche l’inesistenza del patto compromissorio ed in caso
negativo declinare la loro competenza: RUFFINI, in C.p.c. comm., a
cura di C. Consolo e F.P. Luiso, Milano, II, 2000, p. 3376; FERRO, in Profili
sistematici dell’arbitrato, II, cit., p. 627. Per una interpretazione
analoga FESTI, op. cit., p. 38.
[lxvii]
Viene alla mente la parallela disquisizione sulla identità fra res
litigiosa e sua alienazione in corso di causa: vale a dire in un
processo avente ad oggetto la risoluzione del contratto di compravendita, si
discute se la vendita del bene compravenduto a terzi realizzi gli estremi
della alienazione della res litigiosa (in senso negativo PROTO
PISANI, Dell'esercizio dell'azione, in Comm. Allorio, I, Torino, 1973, p.
1247 ss.; contra FAZZALARI, voce
Successione nel diritto controverso, in Enc. dir., XLIII,
Varese, 1990,
p. 1390 ss.). Per la verità vi sono
alcune precisazioni da fare: innanzitutto, lo si è già visto, l’ambito
oggettivo potenziale della clausola statutaria è in grado di coprire il
trasferimento delle quote a terzi, per cui sotto questo profilo non vi è
alcun limite: questa è, direi, la peculiarità che pone i maggiori problemi
in questa ipotesi, rispetto ad altre (rispetto per es. al caso del rapporto
fra negozio di cessione e negozio ceduto corredato di clausola
compromissoria: in questo caso le eventuali controversie circa la validità
del contratto di cessione non sono neppure ricompresse nell’ambito del
patto compromissorio riguardante il negozio ceduto). Rimane il fatto, però,
che l’acquirente, il quale non abbia accettato espressamente la clausola
compromissoria statutaria, è terzo rispetto a questa, che gli si estende
unicamente là ove si sia realizzato pienamente l’effetto del contratto di
cessione, attraverso l’assunzione dello status di socio (infatti,
solo portando a conseguenze distorsive il principio di autonomia, si
potrebbe sostenere che, avendo l’acquirente, con la stipula del contratto
di acquisto della partecipazione, manifestato un -tacito, ex lege-
consenso alla clausola compromissoria statutaria, quest’ultimo rapporto
giuridico si autonomizzi nel momento stesso del perfezionamento, ed ogni
questione sulla validità del contratto medesimo non vi possa più influire:
ma la via è, direi, contraria al significato dell’autonomia –che non
significa irrilevanza assoluta della sussistenza di un consenso valido al
patto compromissorio, sia pure “implicito”-, ed è anche complicata dal
fatto che potrebbe viene in rilievo la possibile cesura fra titolarità del
pacchetto di quote, al momento del consenso, e l’acquisto dello status
di socio nei confronti della società, con il transfert).
[lxviii] Cfr. Coll. arb. Milano, 7 giugno 2000, in Riv. arb., 2001, p. 287 ss. con nota di
PERNAZZA, Clausola compromissoria binaria e arbitrato multiparti;
clausole di prelazione statutarie e parasociali; tutela reale e tutela
risarcitoria. Nella specie l’acquirente era anch’egli socio, per cui
non vi era problema di estensione del patto compromissorio nei suoi
confronti; mentre gli arbitri ritengono che il socio venditore (uscente) sia
comunque legato al patto compromissorio, perché la domanda si basa su fatti
pregressi all’uscita. Mentre un caso in cui l’acquirente era terzo
rispetto al contratto si è posto a Trib. Milano, 27 febbraio 1992, in Le
società, 1992, p. 1380 con nota di AMBROSINI: ma in questo caso era in
discussione il pagamento del prezzo delle azioni, con domanda
riconvenzionale del terzo circa la validità del contratto di cessione, per
cui i giudici ritengono che la questione esuli dai limiti oggettivi ancor
prima che soggettivi, in quanto non riguarda il rapporto sociale ma il
contratto di acquisto delle azioni (con la novella ho già detto che sotto
il profilo oggettivo l’assunto potrebbe cambiare, mentre in discussione
resta anche dopo il profilo soggettivo). Ho già detto nel testo quale sia la strada a mio avviso
corretta: cfr. anche FESTI, op. cit., p. 37 s. che fa applicazione
del principio di Kompetenz-Kompetenz nei termini indicati nel testo.
[lxix]
Analogamente l’esempio proposto da LUISO, op. cit., p. 7 circa la
domanda della società di ottenere dall’acquirente il pagamento delle
azioni non liberate, in caso di contestazione di questo della validità o
esistenza del contratto di cessione. Qui occorre dire che l’oggetto della
domanda dell’attore è diverso dalla qualità di socio e pertanto
l’avente causa non può esservi coinvolto.
[lxx]
E’ all’incirca il caso della Cass., 19 febbraio 1980, n. 1213, in Giust.
civ., 1980, I, p. 1630 ss.: la causa era stata iniziata da alcuni
soci accomandanti, al fine di far dichiarare solo apparente il socio
accomandatario e al contempo di accertare la qualità di socio ad un terzo
(ex socio poi receduto), per effetto di un accordo simulatorio fra i due. La
Cass. afferma, peraltro incidenter tantum, che se il socio occulto
non avesse in origine sottoscritto il patto compromissorio, la causa non
avrebbe potuto essere trattata dagli arbitri, per i limiti soggettivi della
clausola compromissoria statutaria. Con il comma 5° dell’art. 34 la
soluzione potrebbe essere differente. Nella specie, poi, i giudici vanno
oltre, perché affermano che, in
realtà, la cognizione arbitrale è inammissibile in quanto si
fuoriesce dai limiti non soggettivi, ma oggettivi, del patto
compromissorio, dato che le liti compromesse in arbitri dovevano riguardare
i soci fra loro e non i soci con i terzi. Si tratta cioè della
identificazione soggettiva delle liti compromesse in arbitri e non dei
limiti soggettivi della clausola compromissoria. Anche sotto questo profilo,
peraltro, la soluzione post-riforma potrebbe esser diversa, perché in caso
di clausola di tenore generale soccorrerebbe l’ambito oggettivo di liti
individuato dal legislatore delegato, che fa espresso riferimento
all’accertamento del rapporto societario (cfr. par. 2). Ma vi è da dire
che non si può concordare con la Corte quando attribuisce al fatto che il
socio presunto occulto è obiettivamente terzo, l’eccesso dai limiti
oggettivi della clausola compromissoria che parla di controversie fra soci.
Infatti, la valutazione se la lite devoluta agli arbitri rientri o no
nell’ambito oggettivo della clausola compromissoria deve effettuarsi non
sulla base della effettiva sussistenza dei diritti compromessi, ma sulla
base della affermazione delle parti in tal senso: se la parte afferma la
sussistenza di un diritto che rientra tra quelli compromessi (come è il
riconoscimento dello status di socio all’interno del generico
riferimento alla controversia fra soci) questo basta perché si rientri
nell’ambito oggettivo della controversia. Normalmente, poi, soccorre la
mancata sottoscrizione del terzo del patto compromissorio, mentre qui il
caso era un po’ atipico perché il socio aveva si sottoscritto ma era poi
receduto: ora volendo accettare la tesi della Cassazione e cioè che nella
specie fosse sorta lite non per quel recesso, ma per un fatto successivo e
cioè un accordo simulatorio cui aveva partecipato l’ex socio ormai
estraneo alla società, si potrebbe affermare che, nella specie, quella
originaria sottoscrizione avesse perso i suoi effetti: si sarebbe perciò
rientrati nel diverso caso di
clausola compromissoria non accettata dal soggetto convenuto. Altro interessante caso che si è posto riguardava un
cessionario dei meri diritti patrimoniali derivanti dalla quota, di cui si
lamentava la qualità di socio, ritenendo che la cessione integrasse gli
estremi di un negozio indiretto di cessione di quote, di cui si affermava
l’invalidità per non essere stato stipulato con il consenso di tutti i
soci, come da statuto; in presenza di clausola statutaria il socio si era
rivolto agli arbitri e la Cass., 22 aprile 1963, n. 1026, in Giust. civ.,
1963, I, 1560 aveva ritenuto la carenza della legittimazione arbitrale,
ritenendo che non si trattasse di cessione di quote e che pertanto non fosse
stato assunto lo status di socio, indispensabile per l’estensione
della clausola compromissoria. La norma citata dovrebbe invece risolvere il
problema altrimenti, sempre se si dia atto che oggetto del processo sia lo status
di socio e non l’invalidità del contratto indiretto (altrimenti si cade
nell’obiezione di cui nel testo, a proposito del contratto di cessione
quote a terzi).
[lxxi]
Di “non coordinamento”.
[lxxii]L’ipotesi,
ovviamente, deve riguardare una controversia fra soci o fra soci e società,
altrimenti la clausola compromissoria non opererebbe: e può darsi nel caso,
per es., di clausola statutaria che solo parzialmente devolve in arbitrato
le liti societarie.
[lxxiii]
BELVISO, in Tratt. di dir. priv.,
dir. da P. Rescigno, 17, III, Torino, 1985, p. 61 ss. secondo cui vi sono
dei limiti, rappresentati dal fatto che il potere dell’assemblea
presuppone che l’oggetto della modificazione riguardi un nuovo assetto di
quegli interessi che il contratto sociale ha reso comune a tutti i soci e
che pertanto sono nella disponibilità della società e, per essa,
dell’assemblea generale dei soci. La legittimazione a disporre viene
invece meno quando si voglia incidere su diritti soggettivi dell’azionista
nei confronti della società, di cui ella non può disporre.
[lxxiv]
App. Bologna, 22 febbraio 1997, in Le società, 1997, p. 1156 ss.,
con nota di STESURI, ha ritenuto che l’assemblea possa a maggioranza
modificare la clausola compromissoria contenuta nello statuto, per cui, in
quel caso, la volontà compromissoria non era in discussione (ma v. in
motivazione i giudici argomentano sul fatto che la clausola compromissoria
statutaria incide solo di riflesso sui diritti dei singoli, attenendo
all’assetto della società); mentre,
in senso positivo alla intruiduzione successiva della clausola a maggioranza
Trib. Milano, 5 aprile 1971, in Rep. Foro it., 1971, voce
“Cooperative”, n. 20.
[lxxv]
La previsione della possibilità di esercitare il recesso va interpretata, a
contrario, nel senso che la delibera assembleare è pienamente
vincolante nei confronti dei tutti i soci (salvo impugnazione, ad opera dei
soci assenti e dissenzienti od astenuti, secondo il nuovo testo dell’art.
2377 c.c., ovviamente davanti all’autorità giudiziaria).
[lxxvi]
CABRAS SILVESTRI, op. cit., p. 59.
[lxxvii]
Secondo l’accezione di “partecipazione alla manifestazione di volontà
contrattuale”, come avroò occasione di dimostrare ampiamente nel lavoro
monografico di prossima uscita.
[lxxviii]
Opportunamente da formalizzare, per evitare successive contestazioni: A.M.
BERNINI, op. cit., p. 33. In precedenza si era correttamente ritenuto
che il coinvolgimento di organi sociali presupponesse il loro specifico
assenso: RUFFINI, Arbitrato e disponibilità dei diritti nella legge
delega per la riforma del diritto societario,
loc. cit.
[lxxix]
Prospettata da LUISO, op. cit., p. 8.
[lxxx]
Cfr. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo societario (note ad
una prima lettura), in Foro it., 2003, c. 17 che vi ricomprende
anche il revisore di s.r.l. ex art. 2477 c.c.
[lxxxi]
Che peraltro parla di norme del codice civile e per le leggi speciali limita
al collegio sindacale l’applicazione analogica.
[lxxxii]
Mi permetto di rinviare a CARPI, ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato,
a cura di F. Carpi, cit., p. 89 ss., anche per ulteriori riferimenti.
[lxxxiii]
Ed analogo ragionamento potrebbe farsi per quanto riguarda le questioni di
compromettibilità della materia fallimentare, ma solo se si acceda alla
tesi secondo cui le controversie societarie sono compromettibili a
prescindere dalla loro disponibilità, con il solo limite dell’intervento
del p.m. In precedenza ho invece esposto i motivi per i quali non ritengo di
accedere a questa impostazione, ma al contrario credo che anche oggi valga
il metro della disponibilità dei diritti, salva eventualmente quella
interpretazione “correttiva”, che definisce disponibili tutte le
controversie societarie salvo quelle che prevedono
l’intervento necessario del p.m.; peraltro, va detto che la
sottrazione dell’intera materia fallimentare alla operatività della legge
delegata comporta, a mio parere, che anche sotto questo aspetto la novella
non si estenda al post-fallimento.
[lxxxiv]
Che, come giustamente notato, fa da pendant al possibile intervento
dei terzi nel procedimento arbitrale: LUISO, op. cit., p. 9. Cfr. in
tal senso anche la relazione illustrativa, cit.
[lxxxv]
Ci si può chiedere se si debba avere riguardo alla sede legale od a quella
effettiva. La legislazione arbitrale sembra prendere in considerazione la
seconda, quando, con riguardo all’arbitrato internazionale, la utilizza
per valutare l’internazionalità dell’arbitrato (art. 832). Si potrebbe
dunque estendere il criterio anche a casi dubbi, come questo.
[lxxxvi]
Lo nota giustamente CONSOLO, Esercizi imminenti sul c.p.c.: metodi
asistematici e penombre, in Corr. giur. , 2002, p. 1544, il quale
adombra addirittura dubbi sulla costituzionalità della scelta.
[lxxxvii]
Cfr. LUISO, op. cit., p.
1.
[lxxxviii]
CARPI, Alcune idee sulla collaborazione fra il giudice ordinario e
l’arbitro nelle prospettive di riforma, in Rass. arb., 1989, p.
165.
[lxxxix]
Non nascono che rimedi di tal
fatta possono indubbiamente far sorgere difficoltà di applicazione pratica
quando la situazione di impasse non è del tutto definita, o chiara.
Ma ciò non significa che il giudice al quale ipoteticamente ci si rivolga
sia in grado di valutare se la richiesta del suo intervento sia o meno
fondata. Certo, non vi è
dubbio che il ricorso all’arbitrato amministrato attenui questi problemi,
attribuendo un largo potere discrezionale all’ente.
[xc]
Cfr. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., p. 9.
[xci]
Sulla opportunità di introdurre l’intervento del terzo generalizzato il
discorso sarebbe troppo lungo: ma in proposito occorre innanzitutto
distinguere nettamente l’intervento del compromettente (su istanza altrui
o volontario), che è tendenzialmente sempre possibile; dall’intervento
del non compromettente, che è invece tendenzialmente inammissibile, secondo
le regole di relatività del contratto, salvo i casi in cui vi siano
particolari motivi (che derivano dalla incidenza del lodo sul terzo): debbo
rinviare, per evidenti limiti a questa trattazione, ad un lavoro in corso di
elaborazione, su “La convenzione arbitrale nei confronti dei terzi”.
[xcii]
LUISO, op. cit., p. 20.
[xciii]
Di cui l’a. si fa carico, rinviando all’applicazione dell’art. 810
c.p.c.
[xciv]
La giurisprudenza tende a ritenere che l’art. 1419, comma 2°, c.c. sia
applicabile solo laddove la norma vi faccia espresso riferimento, stabilendo
che ogni diversa statuzione deve essere sostitutita con la previsione
imperativa: fra le più recenti Cass., 28 giugno 2000, n. 8794, in Giur.
it., 2001, p. 1153 e in I contratti, 2001, p. 236, con nota di
TUCCI.
[xcv]
Non credo che questa interpretazione finisca per svuotare la sanzione
individuata dalla norma, bensì ritengo costituisca un valido compromesso
fra l’esigenza di evitare i “guasti” della nomina ex parte e
quella di garantire la massima operatività della scelta arbitrale, in
coerenza con lo spirito della novella del 1994. Del resto, ove si guardi
alla sostanza della ratio che ispira la disposizione, cioè far sì
che le parti affidino sempre a terzi la designazione degli arbitri, si deve
ritenere che anche nel caso citato nel testo tale esigenza venga rispettata,
attraverso il rinvio al meccanismo di cui all’art. 809 c.p.c.; e tanto più,
come si dirà subito appresso nel testo, ove si richiami un regolamento che
prevede la nomina dell’intero collegio o dell’arbitro unico ad opera
della istituzione.
[xcvi]
Vale a dire, se il legislatore ha davvero voluto che l’unica modalità di
nomina sia quella eterodeterminata, non ha motivo di specificare l’inciso
precedente, che si ritrova già nell’art. 809, comma 2°, c.p.c.
[xcvii]
Per questa notazione BIAVATI, op. cit., par. 2 in fine: sarei
propensa a ritenere che, in caso di indicazione
di numero pari, operi comunque il meccanismo suppletivo dell’art. 809
c.p.c.
[xcviii]
Contra: FESTI, op. cit., p. 37: io sarei incline a propendere
per una interpretazione restrittiva della norma, perché mi pare che la
nomina eterodeterminata sia imposta unicamente quando le parti scelgano di
percorrere la via della nomina differita e non di quella contestuale al
patto compromissorio, argomentando dall’art. 808, comma 2°, c.p.c. (che
prevede entrambe le opzioni).
[xcix]
SATTA, Comm. al c.p.c., IV, 2, Milano, 1971, p. 249.
[c]
Che indubbiamente costituisce il tipo più idoneo a soddisfare la richiesta
del legislatore, sotto il profilo della nomina eterodeterminata da terzo
estraneo: A.M. BERNINI, op. cit.,
pp. 32-33.
[ci]
A meno che, come afferma testualmente l’art. 5, comma 1°, lo stesso
Comitato tecnico non ritenga opportuna la nomina di tre arbitri, nel qual
caso è prevista la nomina ex parte e si rischia, dunque, la sanzione
(sempre che non si ritenga ammessa la concorrenza di più metodi di nomina,
a patto che sia previsto anche quello indicato dalla legge). Lo stesso
problema si pone ove le parti abbiano indicato in tre il numero di arbitri
che giudicheranno sulla controversia, nel qual caso scatta automaticamente
la nomina con metodo binario, contraria alla legge.
[cii]
V. di recente per le diverse modalità LUISO, L’arbitrato amministrato
nelle controversie con pluralità di parti, in Riv. arb., 2001,
p. 610 ss.
[ciii]
Come dimostra efficacemente LUISO, op. ult. cit., p.
614 ss., ove afferma che il ruolo dell’ente si fa ancor più
prezioso nella applicazione concreta delle regole che sovrintendono alla
composizione del collegio, perché, da terzo imparziale, cerca di rispettare
al massimo i canoni individuati dalle parti e non impone necessariamente la
propria nomina, sostituendosi unicamente alle parti riottose e risolvendo in
modo definitivo eventuali controversie sul punto.
[civ]
LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., p. 10 fa
addirittura l’esempio di una associazione di categoria, che sarebbe
esclusivamente portatrice degli interessi della società; MICCOLIS, Arbitrato
e conciliazione nella riforma del processo societario, cit., p. 10
osserva che la relazione ministeriale dà per scontata l’imparzialità del
terzo estraneo alla società e concorda sulla impossibilità di utilizzare
la procedura di ricusazione contro il terzo nominante.
[cv]
Sul punto rimando a GIOVANNUCCI ORLANDI, in Arbitrato, a cura di F.
Carpi, cit., p. 205
ss.
[cvi]
Conf. BRIGUGLIO, Conciliazione e arbitrato nelle controversie societarie,
in www.Judicium.it, p. 1 ss., il quale fa giustamente leva anche
sui limiti posti dall’art. 12 legge delega; BIAVATI, Il procedimento
nell’arbitrato societario: prime riflessioni, cit., par. 2.
[cvii]
Non si sa fino a che punto consapevole, nota giustamente BRIGUGLIO, op.
ult. cit., p. 2.
[cviii]
Non è questa la sede per la compiuta dimostrazione; ma, assai brevemente,
ritengo possibile che la maggioranza che delibera sia in
grado di vincolare i soci che vi assentono (e che si siano per contro
astenuti, o siano dissenzienti sul merito della delibera medesima) alla
soluzione arbitrale di eventuali future impugnative della medesima.
[cix]
BRIGUGLIO, op. ult. cit., p. 2.
[cx]
Cfr. in tal senso anche MICCOLIS, Arbitrato e conciliazione nella riforma
del processo societario, cit., p. 6 benché non manchino voci contrarie
BRIGUGLIO, op. ult. cit., p. 2 avanza l’ipotesi che le clausole
compromissorie contenute in patti parasociali o in trasferimenti di quote
rientrino nella disciplina della c.d. clausola statutaria, per quanto
compatibile, in virtù della menzione nell’art. 12 della l. delega, nonché
nell’art. 1 d. lgs. sul procedimento di cognizione. Ma a me non pare che
questi dati siano sufficienti di fronte ad una ipotesi strettamente
delineata dal legislatore che riguarda la clausola inserita nel contratto
sociale, per la quale fra l’altro vigono regole specifiche e non
adattabili ad altre fattispecie.
[cxi]E’
il caso, a mio parere, della potestà cautelare, che contrasta con l’art.
817 c.p.c. e della decisione incidenter tantum su materie non
compromettibili (819 c.p.c.) benché quest’ultimo punto sia più
controverso. Contra, per l’applicazione analogica BRIGUGLIO, op.
cit., p. 5.
[cxii]
Cfr. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, cit., p. 2.
[cxiii]
BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato societario: prime riflessioni,
cit., par. 1.
[cxiv]
In effetti, la normativizzazione dell’arbitrato irrituale costituisce, già
di per sé, una contraddizione nei termini (cfr. le osservazioni espresse da
BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato societario: prime riflessioni, cit.,
parr. 9-10); la stessa Corte costituzionale (5 luglio 2002, n. 320, in Riv.
arb., 2002, p. 503 ss. con nota di SASSANI, La garanzia
dell’accesso alla tutela cautelare nell’arbitrato irrituale),
chiamata a verificare la illegittimità costituzionale di un tale
orientamento (cfr. Trib. Torino, ord., 21 maggio 2001, in Riv. arb.,
2002, p. 85 ss. con nota giustamente critica di F. AULETTA, “Le leggi
non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne
una interpretazione non costituzionale, ma perché è impossibile darne una
interpretazione costituzionale”: la disapplicazione del principio in
materia di arbitrato e tutela cautelare), ha correttamente ritenuto di
non potere intervenire sul punto, dichiarando manifestamente inammissibile
la questione di incostituzionalità.
[cxv]
Rilevate da CONSOLO, op. cit., p. 1544.
[cxvi]
In questo senso BIAVATI, op. cit., par. 10 . Cfr. anche PIZZOFERRATO,
Giustizia privata del lavoro, in corso di pubblicazione per i tipi
della Cedam, di cui ho potuto leggere le bozze.
[cxvii]
Che, come è noto, è sostenuta in primis da PUNZI, Disegno
sistematico, cit., I, p. 77 ss.; una recente rielaborazione in chiave di
distacco dei due modelli si deve a MARINELLI, Sulla natura
dell’arbitrato irrituale: profili comparatistici e processuali,
Torino, 2002, p. 190 ss. Favorevole alla persistenza della distinzione E.F.
RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., n. 8, che parte dalla
efficacia giurisdizionale del lodo rituale e, di fronte alla evidente
“giurisdizionalizzazione” che la riforma societaria ha attuato con
riguardo all’arbitrato, nega che l’arbitrato irrituale possa confluire
in quell’alveo, perché verrebbe meno la sua stessa natura di rimedio
esclusivamente negoziale; riconduce dunque la previsione della legislazione
delegata alla parte della legge delega relativa alla conciliazione (art. 12,
comma 4°), ma vi osta, direi, l’insanabile distacco fra componimento
conciliativo ed accertamento (sia pure negoziale).
[cxviii]
Cfr. ancora PIZZOFERRATO, op. loc. citt.
[cxix]
Giustamente BIAVATI, op. loc. ultt. citt.
[cxx]
In tal senso è E.F. RICCI, op. ult. cit., n. 4, il quale giustamente
aggiunge che la limitazione, ad opera delle parti, della tutela del terzo
rispetto al lodo è irragionevole in ogni caso, e dunque anche in quello
dell’art. 838 c.p.c.
[cxxi]
Alludo alle indagini di DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 121 ss. spec. p. 164 ss., a proposito del c.d. metodo
tipologico, che consente, dalla disciplina legale, di passare la “tipo
normativo” e poi discendere da quest’ultimo alla fattispecie concreta,
cosicché quest’ultima deve essere misurata non tanto sul tipo legale, ma
su quello normativo, cui la disciplina positiva, appunto, si ispira.
[cxxii]
Il problema si risolverebbe in quello, assai più semplice, della
individuazione delle disposizioni derogabili ad opera delle parti. Cfr., con
prospettiva diversa, ma sempre con riferimento al nesso fra arbitrato libero
e deroga alle disposizioni del diritto comune dell’arbitrato, SASSANI, La
garanzia dell’accesso alla tutela cautelare nell’arbitrato irrituale,
in Riv. arb., 2002, p. 508 s.
[cxxiii]
Lo rileva giustamente E.F. RICCI, op. ult.
cit., n. 8.
[cxxiv]
Cfr. BIAVATI, op. cit., par. 10, che prende in considerazione alcune
opzioni interpretative, ma scarta la possibilità di impugnare il lodo
irritale con querela nullitatis, o di trasfondere le impugnative del
lodo rituale (ivi compresa opposizione di terzo e revocazione) nell’alveo
dell’impugnativa contrattuale. A monte, ritengo, occorre valutare se
l’inderogabilità valga anche per l’arbitrato “atipico”.
[cxxv]
Contra E.F. RICCI, op. loc. ultt. citt.
[cxxvi]
Penso, per esempio, al problema del numero dispari degli arbitri che,
imposto inderogabilmente nell’arbitrato rituale, viene ritenuto non
necessario nell’arbitrato irrituale: Cass., 20 novembre 1979, n. 6054, in Rep,
Foro it., 1979, voce “Arbitrato”, n. 27; conf. SATTA, op. cit.,
p. 251.
[cxxvii]
V. da ultimo Trib. Brescia, 23 giugno 2001, n. 2373,
e Trib. Parma, 23 gennaio 2002, in Riv. arb., 2002, p. 527 ss.,
in tema di forma del patto compromissorio irrituale, con nota critica di
GROSSI, Sul problema della
forma del patto compromissorio nell’arbitrato libero.
[cxxviii]
Cfr. BIAVATI, in Arbitrato, cit., p. 748 ss.
[cxxix]
Si tratta, cioè, di verificare, in ogni caso concreto, se, oltre agli
strumenti che già sono disponibili nel nostro ordinamento, quali la teoria
del socio occulto, la rappresentanza apparente, la trasparenza nei gruppi di
società, l’interposizione fittizia di persona, la norma citata sia in
grado di risolvere il problema della estensione del patto compromissorio in
casi in cui un terzo intende coinvolgere in arbitrato un soggetto che non è
parte formale del compromesso. Si tratta di una indagine assai complessa,
che non posso che rimandare ad un approfondimento ad hoc. Per un ampio esame v. HANOTIAU, Problems raised by complex arbitrations
involving multiple contracts - parties - issues, in Journal of
internat. arb., 2001, p. 251 ss.
[cxxx]modificata
dall’art. 8 ter l. 31 dicembre 2001 di conversione del d.l. 23
novembre 2001, n. 411.
[cxxxi]
I dd. llgs. n. 80 del 1998 e n. 387 de 1998, hanno, come è noto, introdotto
una forma ibrida di arbitrato (qualificato dalla stessa l. 142 del 2001 come
“irrituale”, ma la definizione non è scevra da perplessità), frutto
essenzialmente della concertazione collettiva. Prima della riforma, ai sensi
dei previgenti artt. 4 e 5 l. 11 agosto 1973, n. 533, Pret.
Milano, 12 febbraio 1999, in Riv. critica dir. lav. 1999, p. 351
aveva ritenuto che si applicasse, in conformità con dette norme, la mera
facoltatività dell’arbitrato.
[cxxxii] La dottrina non ha poi mancato di rilevare le difficoltà applicative di una siffatta distinzione, ove la controversia investa, in concreto, entrambi i profili. Cfr. BOLEGO, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove l. civ. comm., 2002, p. 460 s.; PAOLUCCI, La compromettibilità delle controversie in materia di cooperative e consorzi, in Le società, 2000, pp. 1427 ss., spec. p. 1430.
[cxxxiii]
Sostituendo il precedente tenore con: “Il rapporto di lavoro si estingue
con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle
previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527 del
codice civile. Le controversie tra socio e cooperativa relative alla
prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”.
[cxxxiv]
Ci si può chiedere se valga la disposizione secondo cui le società
costituite successivamente dovranno prevedere una clausola compromissoria
conforme alla legge (ovviamente l’obbligo riguarda la conformità e non
l’opzione arbitrale), pena la mancata iscrizione (art. 223 bis,
comma 5°): direi di no, visto che la norma fa riferimento unicamente al
decreto sostanziale e non a quello processuale. Analogo ragionamento può
farsi per la previsione secondo cui le modifiche hanno effetto allo scadere
del termine del trenta settembre 2004 (art. 223 bis, comma
4°).
[cxxxv]
Se tali modifiche non siano poste in essere, si ricorre alle relative
sanzioni. Se non si adeguano le modalità di nomina, allora la clausola
compromissoria sarà radicalmente nulla; se non si adegua la previsione
circa la impugnabilità del lodo, allora si applicherà la disciplina di
legge, senza alcuna sanzione; se non si sopprime la clausola nelle società
quotate, ne deriverà la nullità di un arbitrato da clausola compromissoria
statutaria per incompromettibilità della controversia (ma non da altre
tipologie di convenzione arbitrale).
[cxxxvi]
Conf. LUISO, op. cit., p. 16.
[cxxxvii]
Che fa riferimento all’art. 2365, comma 2°, c.c.
[cxxxviii]
Così emerge anche dalla relazione all’articolato, che si può leggere in www.judicium.it.
[cxxxix]
Conf. LUISO, op. cit., p. 17 il quale nota giustamente che per un
procedimento iniziato nel 2003 vale la nomina ad opera delle parti, mentre,
se il procedimento inizia dopo, a nulla vale che la clausola statutaria sia
stata approvata prima. Per l’impugnativa delle delibere occorre tenere
conto dell’art. 223 sexies che dispone la valenza degli artt. 2377
ss. nel testo modificato, anche per le delibere emesse prima del 1 gennaio
2004, ma impugnate successivamente, con slittamento del termine fino al 31
marzo 2004.
[cxl]
Nelle quali maggiormente possono porsi problemi di questo genere, essendo a
struttura più semplificata e soprattutto personale, nella quale
tendenzialmente gli amministratori sono soci: D. U. SANTOSUOSSO, Il nuovo
diritto societario, Supp. a Dir. e giust. 9/2003, Milano, 2003,
p. 175.
[cxli]
Lo nota FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario,
in Riv. arb., 2002, p. 446. Parla infatti di “arbitrato
economico” PROTO PISANI, op. cit., c. 18.
[cxlii]
Trib. Cassino, 21 giugno 1991, in Società, 1992, p. 82, il quale
rifiuta l’omologazione di una clausola di siffatto tenore, sulla
motivazione che si verrebbe a privare l’amministratore del naturale potere
gestorio; anche E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., n. 1
nota che si tratta di un istituto che nulla ha a che fare con l’arbitrato
e che desta perplessità per la sua natura di “sostitutivo” della
gestione societaria; CABRAS SILVESTRI, op. cit., p. 70.
[cxliii]
DAINO, Tecniche di soluzione del “dead lock”: la disciplina
contrattuale del disaccordo tra soci nelle joint ventures paritarie,
in Dir. comm. internaz., 1988, p. 170 ss., il quale fa leva sul fatto
che non si tratta di “controversie giuridiche”; più favorevole invece
BONVICINI, Le “joint ventures”: tecnica giuridica e prassi societaria,
Milano, 1977, p. 410 ss. il quale, riportando l’esperienza statunitense,
che parte da un deciso disfavore per poi aprirsi gradualmente a tale
strumento, parla di arbitraggio; aperto anche JAEGER, Appunti
sull’arbitrato, cit., p. 226.
[cxliv]
MICCOLIS, op. cit., p. 12; G. BERNINI, in Arbitrato e procedure di
conciliazione nelle controversie societarie, cit., p. 10; LUISO, Appunti
sull’arbitrato societario, cit., p. 1.
[cxlv]
Cfr. PANZARINI, I profili di modernità degli arbitrati greci e romani
nei principi e nelle regole tecniche da essi trapassati, con sorprendenti
coincidenze, negli odierni arbitrati, in Scritti giuridici per Guido
Rossi, II, Governo dell’impresa e mercato delle regole, p. 1250
ss.
[cxlvi]
La riforma delle società sotto il profilo sostanziale non ha toccato queste
norme, per cui l’istituto introdotto dal decreto delegato si aggiunge agli
strumenti più specifici previsti dalle norme indicate, con riguardo alla
società semplice avente ad oggetto attività commerciale.
[cxlvii]
Del resto, il comma 3° dell’art. 37, nel consentire all’arbitratore di
dare indicazioni vincolanti anche su “questioni collegate con quelle
espressamente deferitegli”, non può riguardare controversie su diritti,
che debbono seguire la via della giurisdizione o dell’arbitrato, a seconda
della scelta effettuata.
[cxlviii]
Del resto, l’esperienza d’oltreconfine dimostra talvolta una commistione
di questi due strumenti (rinegoziazione e soluzione dei conflitti di
gestione) nell’ipotesi in cui si tratta di inserire la clausola in patti
parasociali, in occasione di joint ventures, che prevedano il riequilibrio
dei patti, ove si determinino fenomeni, appunto, di dead-lock (DAINO,
Tecniche di soluzione del “dead lock”: la disciplina contrattuale del
disaccordo tra soci nelle joint ventures paritarie, cit.,
p. 173).
[cxlix]
Condivido pienamente, a questo proposito,
le osservazioni di BIAVATI, Il procedimento nell’arbitrato
societario: prime riflessioni, cit., parr. 1 e 5, circa il tentativo del
legislatore delegato di “paragiurisdizionalizzare” l’arbitrato da
clausola statutaria ed incidere così su alcuni dei maggiori
pregi dell’arbitrato, cioè la flessibilità che lo
contraddistingue ed anche la rapidità di giudizio,
“minata” dalla possibilità di coinvolgere terzi.
[cl]
In una sorta di doppia anima della riforma societaria, sostanziale compreso,
che da un lato esalta la teoria contrattualistica, dall’altro mette in
rilievo, come in questo caso, la teoria istituzionalistica: lo nota PORTALE,
Riforma delle società di capitali e limiti di effettività del diritto
nazionale, in Corr. giur., 2003, p. 145 s.
[cli]
Coglie questo aspetto E.F.
RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., n. 1 ss.