IL DIRITTO AD UN PROCESSO DI RAGIONEVOLE DURATA:

LA “LEGGE PINTO” E L’EUROPA TRADITA[1]

 

                Ci sarà pure un giudice a Berlino, si chiedeva il mugnaio prussiano al cospetto di re Federico II, che gli negava il suo diritto; allo stesso modo, fino a qualche tempo fa - prima dell’entrata in vigore della controversa “legge Pinto”(n. 89 del 24 marzo 2001) - il cittadino italiano, che si era trovato impaludato nelle acque stagnanti della giustizia italiana, si chiedeva se poteva esistere una giustizia diversa, in grado di dare una risposta di giurisdizione pronta, efficace, sicura e giusta: in una parola, una giustizia vera. E soprattutto veloce, poichè è la durata eccessiva dei processi ciò che ha sempre indignato più di ogni altra cosa lo sventurato utente della giustizia nostrana. Una giustizia che - possiam dire - si caratterizza per una tutela sostanziale dei diritti di grado avanzato ma di applicazione svilita, quando non del tutto negata, dalla esasperata lunghezza dei processi. Il giudice capace di restituirgli il diritto negato (non quello sostanziale, ma quello non meno importante ad aver giustizia in tempo ragionevole) il cittadino italiano lo aveva alfine trovato, poco distante da Berlino: a Strasburgo, dove ha sede la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali.

            Questo scenario è stato stravolto, per meglio dire azzerato, dal varo della legge Pinto[2], sulla cui genesi varrebbe la pena spendere alcune parole. Senza volersi dilungare troppo, basterà ricordare che il “probléme italien” era all’ordine del giorno del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sin dal 1995, quando con una prima risoluzione poi reiterata l’Italia veniva dichiarata “sotto sorveglianza”. Nel 1999 il Comitato, pur prendendo atto dell’impegno solenne assunto dall’Italia per cercare di risolvere il problema e constatando un aumento di efficienza dei Tribunali italiani (dovuto all’entrata in vigore di alcune riforme, prima fra tutte quelle sul giudice unico e sulle sezioni stralcio, e la revisione dell’art. 111 Cost., il che fa venire il dubbio che la stagione delle riforme sia stata soprattutto frutto della pressione europea piuttosto che figlia di una seria politica interna di rinnovamento), decise di “concedere termine” di un anno allo Stato italiano per vedere se le nuove contromisure annunciate per ridurre i tempi dei processi si sarebbero davvero rivelate efficaci. In realtà, le contromisure che l’Italia aveva annunciato erano molto blande, visto che il tutto si riduceva in buona sostanza a quello che sarebbe poi diventato l’impianto della futura legge Pinto (all’epoca ancora sotto forma di disegno di legge, n. 3813/S). Il legislatore italiano si proponeva quindi di introdurre un “mezzo efficace di ricorso interno in materia di durata delle procedure”, il che a ben vedere non è affatto contromisura atta a risolvere il problema fisiologico della eccessiva lunghezza dei processi, bensì introduzione di un sistema procedurale di risarcimento per i danni causati dalla patologia creata dal problema; più che altro, come è a tutti evidente, si trattava - e si tratta ora che quel d.d.l. è legge - di adottare un sistema procedurale interno in grado di non intasare più la Corte sovranazionale. Infatti, passato l’anno di termine che era stato concesso, il Consiglio d’Europa non poté far altro che prender atto che i ricorsi inviati a Strasburgo dai cittadini italiani non diminuivano (anche perché nel frattempo il disegno di legge era rimasto tale e quindi sul piano normativo sostanziale nulla era cambiato), rimanendo i soliti 1.500-2.000 all’anno, e cominciò a far richieste più pressanti, fino a minacciare la sospensione all’Italia del diritto di voto, cosicché i tempi per l’approvazione della futura legge Pinto si accelerarono. Significativamente, l’iter di approvazione della legge è uno dei più rapidi che si ricordi: il testo finale è stato approvato in tre giorni dai due rami del Parlamento, ed il testo definitivo è stato approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, in sede deliberante, l’ultimo giorno della passata legislatura. La legge, nonostante il d.d.l. fosse di iniziativa del gruppo parlamentare del Partito Popolare[3] e quindi della maggioranza di centro-sinistra, è stata comunque approvata all’unanimità, cosicchè la responsabilità politica della sua emanazione va condivisa fra tutte le forze politiche parlamentari dell’epoca: si può ben dire, quindi, che si tratti di un vero e proprio caso di legislazione d’emergenza[4].

            Insomma, è scritto nelle motivazioni storiche che hanno portato alla approvazione della legge (quale atto dovuto per onorare gli impegni previsti dalla Convenzione e presi con l’Unione Europea), che la finalità della legge Pinto è solamente quella di deflazionare il contenzioso innanzi alla Corte di Strasburgo, mentre nulla essa fa o può fare per risolvere il problema, che era e resta quello dell’eccessiva durata dei processi italiani. La qual cosa non è naturalmente sfuggita al Comitato dei Ministri della Corte Europea, che il 3 ottobre 2001, con la risoluzione 703f, ha preso atto dell’introduzione della legge Pinto ma “ha espresso perplessità sul fatto che la legge menzionata non prevede l’accelerazione dei procedimenti e che la sua applicazione pone il rischio di aggravare il sovraccarico delle Corti d’Appello”[5].

            Quanto meno, non può essere imputato ai legislatori della legge Pinto di avere tradito i principî della Convenzione europea, nell’importarli nella legislazione nazionale: il principio di diritto che sorregge la Convenzione (l’art. 6 della stessa) è stato espressamente fatto proprio dall’art. 2 della legge Pinto, che prevede che “chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”. Semmai, stride l’assenza di riferimento alcuno alla nuova formulazione dell’art. 111 Cost., nel quale è stata inserita una garanzia formale che, prima, nella nostra carta costituzionale non esisteva: la ragionevole durata del processo[6]. E’ vero che il nostro legislatore è tanto generoso, in termini di produzione legislativa, quanto normalmente disattento al coordinamento fra le nuove fonti via via partorite, ma semplicemente ignorare che poco tempo prima (neanche un anno e mezzo prima: nel dicembre 1999) era stata riformata la costituzione sul punto specifico appare qualcosa più di una leggerezza, e cioè una dimostrazione di insensibilità e di approssimazione preoccupante, atteggiamento in ordine al quale la legge Pinto offre peraltro più di uno spunto di riflessione.

            Ma quel che più lascia perplesso, e che mi induce a parlare di “tradimento” dello spirito della Convenzione e della giustizia resa dalla Corte europea in materia di irragionevole durata, è - da una parte - la scelta di sottrarre la giurisdizione in materia alla Corte sovranazionale, in favore delle Corti (d’Appello) domestiche, e - dall’altra - l’applicazione da parte di quest’ultime (nonchè della Corte di Cassazione, almeno per quanto appare dalle primissime decisioni edite) di misure e criteri risarcitorî - quando applicati - palesemente, ed a volte anche dichiaratamente, in spregio alla giurisprudenza formatasi in sede europea.

            Quanto al primo punto, va detto che la scelta di creare giurisdizione domestica per far fronte alla domanda di giustizia sulla durata non ragionevole dei processi nasce - forse non soprattutto ma certamente anche - da una presunta necessità d’ordine giuridico, sorta dopo che la questione di diritto era stata sollevata dalla decisione del 26 ottobre 2000 della Corte di Strasburgo nel caso Kudla c. Polonia[7], che si era soffermata sulla interpretazione dell’art. 13 della Convenzione, il quale prescrive che “ogni persona i cui diritti e le libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. Secondo la decisione della Corte, ciò si traduce nell’obbligo dello Stato contraente di assicurare una tutela interna al diritto alla ragionevole durata del processo. E’ ciò è tanto più evidente a mente dell’art. 35 della Convenzione, il quale detta - alla rubrica “condizioni di ricevibilità” - che “la Corte non può essere adìta se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne...”.

            Non deve essere parso vero, quindi, al legislatore italiano, da anni in difficoltà nei confronti della Corte nonchè dei partners aderenti alla Convenzione (i quali non riuscivano più ad ottenere l’attenzione della Corte, pressocchè interamente assorbita ad occuparsi del problème italien), di poter legittimamente creare ex novo un rimedio giurisdizionale interno, così di fatto eliminando la legittimazione passiva diretta della Corte europea. Una soluzione che, va detto, ha trovato immediatamente complice la stessa Corte, la quale, con motivazioni metagiuridiche che hanno suscitato la legittima reprimenda di più di un giurista[8], con la famigerata sentenza Brusco c. Italia del 6 settembre 2001[9], ha affermato la “improcedibilità sopravvenuta” del ricorso sovranazionale già depositato, a seguito della successiva introduzione del rimedio procedurale domestico.

            E così il gioco delle parti, in cui ragione e diritto giocano una parte tutta marginale, si è concluso - per ora - con un classico colpo di rimpiattino: da una parte, per sottrarre alla giurisdizione europea i nuovi ricorsi, l’Italia non ha esitato ad approvare una legge che invece di risolvere il problema lo aggrava; dall’altra, per liberarsi del pesante fardello costituito dalle migliaia di vecchi ricorsi, l’autorità europea non ha esitato a dichiarare irricevibili i ricorsi già depositati. Fuor di diritto, come pare ora piacere alla Corte di Strasburgo, non rimane che cogliere il sollievo della stessa nell’essersi finalmente sgravata dell’onusto carico costituito dai circa 12.000[10] (di cui solamente 1.000 avevano già ricevuto il visto di ricevibilità) ricorsi italiani giacenti[11].

            Niente più ricorsi, per la Corte di Strasburgo; niente più sanzioni, per l’Italia: il conto di chi ci ha guadagnato è presto fatto. Chi ci ha perso è però ancora il cittadino, con modalità tali che par sentirsi risuonare, in accompagnamento, un sonoro pernacchio di scherno, giacchè lo Stato italiano, mentre continua oggi - esattamente come prima - a non assicurare la ragionevole durata dei processi, ha precluso il ricorso diretto alla Corte europea, per giunta costringendo il cittadino agli oneri di una obbligatoria difesa tecnica (laddove il ricorso a Strasburgo poteva essere fatto personalmente per lettera), ed offrendo quale risarcimento un piatto di lenticchie: la copertura finanziaria della legge è stata di 12 miliardi e 705 milioni di lire, che è importo inferiore a quello che l’Italia veniva condannata a pagare dalla Corte di Strasburgo in un solo anno: quasi 8 miliardi nel 1997; 7 miliardi nel 1998; 12 miliardi nel 1999; 19 miliardi nel 2000 (importi tutti in lire). E per rendere l’idea dell’inadeguatezza della copertura finanziaria, sapendo che nel solo primo mese e mezzo del 2000 l’Italia è stata condannata a pagare 5 miliardi di lire complessivamente liquidati per 184 decisioni (con una media quindi di liquidazione di circa 27 milioni per ricorso), possiamo allora fare una proporzione e vediamo che se moltiplichiamo per 27 milioni i 12.000 ricorsi che erano pendenti a Strasburgo, i provvedimenti di liquidazione dovrebbero superare i 300 miliardi di vecchie lire, ciò evidentemente sul presupposto che i 12.000 ricorsi venissero tutti decisi ed accolti, il che immagino probabilmente non sarebbe, ma il dato che emerge - una previsione di spesa di 12 miliardi di lire a fronte dei 300 che, seppure nella peggiore delle ipotesi, l’Italia sarebbe condannata a pagare dalla Corte europea - rende bene la totale inadeguatezza economica ancor prima che giuridica della legge. E se al momento del varo della legge Pinto si poteva pensare che solamente una parte dei 12.000 ricorsi già pendenti avrebbe finito per essere riproposta innanzi alle Corti d’Appello italiane, oggi - dopo la ricordata decisione Brusco della Corte europea - abbiamo la certezza che questo immane carico di ritorno è destinato ad intasare le Corti italiane, in aggiunta alla messe dei nuovi ricorsi ed in aggravamento al carico già accresciuto delle stesse, in forza del trasferimento alle Corti d’Appello della competenza a decidere in grado d’appello sulle controversie di diritto del lavoro (che oggi ricomprendono anche le controversie relative ai rapporti di pubblico impiego alle dipendenze della P.A.) nonchè sui gravami avverso le sentenze emesse dalle Sezioni Stralcio. Va ricordato che, non a caso, sulla legge è gravato anche un parere negativo della Commissione Bilancio della Camera.

            E che cosa significa poi che, come dice la legge Pinto (all’art. 3, n. 7), “l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene, nei limiti delle risorse disponibili”? Che verranno pagati solamente i primi che otterranno delle condanne, e gli altri dovranno accontentarsi di avere in mano un titolo esecutivo senza alcuna possibilità pratica di soddisfazione del proprio credito, così come accade spesso ad un qualsiasi creditore (ma con la differenza che il cittadino creditore dello Stato non potrà ricorrere all’istanza di fallimento...)? Che significato ha dire che, anche se un cittadino ha ragione e lo Stato italiano viene riconosciuto colpevole e condannato dai suoi stessi giudici, lo Stato si riserva di pagarlo quando vuole e, comunque, solo forse (se ci saranno i soldi)? E’ una previsione intollerabile in uno stato di diritto, ancor più se si pensa in quale contesto nasce, e cioè in un procedimento che alle derive della funzionalità dello Stato si offre di porre rimedio[12]. Si tratta di interrogativi che certamente molti attori, usciti vittoriosi dai procedimenti innanzi alle Corti d’Appello italiane, si stanno ponendo, ora che si tratta di incassare quanto è stato loro riconosciuto; e a parte le preoccupazioni, non mancano segnalazioni di vere e proprie disperazioni, come quella che riferisce di una parte che, uscita vittoriosa da un procedimento innanzi alla Corte d’Appello di Milano che le ha riconosciuto un indennizzo di 16.000 euro, non riuscendo ad ottenere la liquidazione della somma assegnatale, si è incantenata per protesta davanti al Palazzo di Giustizia di Genova[13].

            Nulla, in realtà, se non la vicendevole convenienza politica, ha potuto motivare lo scippo di giurisdizione e di giustizia che il cittadino si è visto perpetrare a proprio danno, con l’approvazione della legge Pinto. Nemmeno la presunta questione di diritto sull’assenza, nel nostro ordinamento, del rimedio processuale interno, poichè in precedenza già più volte la stessa Corte di Strasburgo aveva interpretato nel senso che se la via del ricorso interno non era prevista (come in Italia, prima della legge Pinto) era comunque fatta salva la possibilità del cittadino di ricorrere direttamente alla Corte di Strasburgo, come era stato anche stabilito nel primo procedimento che portò alla condanna dello Stato italiano: il caso Capuano c. Italia del 25 giugno 1987.

            Ciò detto, è facile osservare - come già molti hanno fatto - che l’intera vicenda che ha caratterizzato il varo della legge Pinto nasce da un atteggiamento grossolano del nostro legislatore, il quale evidentemente crede che il problema dell’intasamento delle curie italiane, che è il motivo primo se non unico della durata dei processi, possa essere risolto distraendo la competenza a giudicare sui ricorsi dalla sede europea in favore di quella stessa autorità giudiziaria italiana che dei ritardi è responsabile, così addirittura aumentandone, invece che diminuirne, il carico. A dire il vero, l’intenzione originaria dei firmatari del disegno di legge era proprio quella di identificare, prima ancora che un sistema domestico di risarcimento dei danni da ritardo, delle misure acceleratorie del processo, per fare in modo che - innanzitutto - i ritardi non avessero più a verificarsi. Col tempo, però, questa prospettiva è stata completamente abbandonata e nulla si trova nella legge Pinto che si occupi della accelerazione del processo[14]: l’unica previsione normativa che non riguarda il sistema riparatorio è la ridefinizione dei casi in cui la Corte di Cassazione decide in camera di consiglio, con la modifica del testo dell’art. 375 c.p.c., ma è del tutto evidente che non è questa una misura che di per sé sola possa essere in grado di incidere in modo apprezzabile sui gravissimi ritardi che affliggono i processi italiani. Tolta così dal campo ogni ambizione acceleratoria, per la legge Pinto si parla giustamente di una semplice “nazionalizzazione” del procedimento di liquidazione dei danni da ritardo.

            L’altro piano sul quale si è delineato, ormai ben chiaramente, l’allontanamento dallo jus receptum europeo è quello delle misure e dei criteri di liquidazione dell’indennizzo alle parti protagoniste, loro malgrado, di processi a lunga durata. Con riguardo alla misura dell’indennizzo da riconoscere alla “vittima” di un processo irragionevolmente lungo, la giurisprudenza ad oggi emessa dalle Corti domestiche si divide, da una parte, fra l’applicazione di misure risarcitorie aut indennitarie nettamente inferiori rispetto al “tariffario” europeo e, dall’altra, la negazione del diritto stesso al risarcimento. Ed anche gli stessi criteri posti a base del diritto ad ottenere l’equo indennizzo, quando esso viene riconosciuto tutelabile, sono emersi come più rigorosi rispetto a quelli per anni adottati dalla Corte di Strasburgo; innanzittutto, la giurisprudenza domestica ha fatto piazza pulita del favor processuale che la Corte europea aveva concesso al cittadino italiano, con la celebre sentenza resa nel caso Bottazzi c. Italia del 28 luglio 1999, allorquando la Corte cominciò ad applicare il principio dell’inversione dell’onere della prova: se prima era il ricorrente a dover provare che i ritardi erano addebitabili allo Stato italiano, da allora in poi era lo Stato italiano a doversi discolpare provando che i ritardi non erano da addebitare allo stesso. Con tale decisione, vero e proprio punto di svolta nella giurisprudenza della Corte sui ricorsi italiani, questa aveva accertato e dichiarato l’esistenza di una prassi italiana incompatibile con il principio garantito dall’art. 6 della Convenzione, comportante “violazione continua ad avere giustizia in tempi ragionevoli”, formula gravissima se si pensa che la Corte la aveva usata per l’ultima volta in occasione dei ricorsi provenienti dalla Grecia nell’infausta era dei colonnelli. Oggi, invece, spetta al cittadino-attore provare che la durata irragionevole è dipesa da ritardi addebitabili all’ordinamento italiano, e non invece alle cause che sono state tipizzate come dirimenti, quali la complessità del caso ovvero la condotta delle parti.

            Oggi, non solo i criteri per ottenere il riconoscimento dell’equo indennizzo si sono fatti più rigorosi, ma spesso - come dicevamo - il diritto all’indennizzo (con riguardo al danno non patrimoniale, che la Corte di Strasburgo liquidava sistematicamente) non viene affatto considerato degno di tutela. E quel che è più preoccupante è che la prima giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla legge Pinto pare esattamente indirizzata in questa, restrittiva, direzione: l’indennizzo non spetta automaticamente, in quanto “deve escludersi che il danno patrimoniale o morale sia in re ipsa per il solo fatto che il processo si sia protratto oltre la sua fisiologica durata”[15]. Oggi, quindi, il cittadino italiano, per ottenere tutela del proprio diritto primario ad un processo di ragionevole durata, non solo deve adire il medesimo ordinamento che ha prodotto il ritardo del suo processo (laddove prima poteva adire una giurisdizione terza e pertanto, fisiologicamente, più imparziale), non solo deve provare che il ritardo è addebitabile allo Stato italiano (laddove prima era quest’ultimo a dovere fornire eventuale prova contraria), ma anche deve, infine, provare positivamente di avere subito un danno psicologico (laddove il danno non patrimoniale, nella giurisprudenza della Corte europea, si dava pacificamente per riconosciuto in re ipsa, in presenza del dato oggettivo del ritardo di irragionevole durata).

            Sfuggire ai criteri dettati negli anni dalla Corte di Strasburgo ha un significato oggettivamente eversivo, rispetto all’ottica europeista che spesso invece, con buona ragione, si rincorre, anche nella politica legislativa nazionale. E stravolgere, sino a renderli irriconoscibili, tali criteri non può che finire per significare la negazione della salvaguardia che la Convenzione offre del particolare diritto fondamentale che l’individuo ha alla celebrazione di un processo non solo equo, ma anche celere. Tanto più che le pronunce giurisprudenziali emesse in sede europea, a valere quale diritto vivente, rappresentano un patrimonio giuridico vasto ed attendibile, e soprattutto sono eteroformate, nel senso che si tratta di una giurisprudenza resa da una giurisdizione esterna, con riflessi anche in termini di indipendenza e terzietà del giudice, così come vorrebbe la nuova formulazione dell’art. 111 Cost. D’altronde, se ragioniamo in un’ottica europea, come certamente facciamo non solo perché i tempi ce lo impongono ma anche perché parliamo dell’osservanza di una particolare convenzione europea, quale miglior riferimento possiamo avere della giurisprudenza formatasi in quella sede?

            La giurisprudenza europea è copiosa ed analitica, cosicché non si vede come potrebbe essere ignorata dalle Corti d’Appello. Il patrimonio giurisprudenziale europeo, peraltro, si pone come precedente non solo necessario, ma anche utile ad evitare che le Corti nostrane ricorrano ad una giurisdizione sommaria e pretoria, producendo una disparità di trattamento nelle liquidazioni che prima la centralità della Corte europea rendeva impossibili. In questo senso, conforta leggere nella decisione di una Corte domestica che “la circostanza che come fatto produttivo del danno il legislatore italiano preveda immediatamente la violazione dell’art. 6 della Convenzione autorizza ed anzi impone di rintracciare i necessari canoni interpretativi nella giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che, sul tema, ha avuto infatti modo di emettere numerose pronunce anche nei confronti dello Stato italiano”[16].

            La giurisprudenza formata dalla Corte europea può quindi - ed anzi deve, a mio parere - soccorrere in analogia anche sul punto della liquidazione dei risarcimenti, anche perché la legge Pinto non detta parametri oggettivizzati per i risarcimenti (strada che invece il legislatore aveva adottato appena diciannove giorni prima, con l’emanazione della legge sui risarcimenti dei danni da c.d. micropermanenti: legge n. 57 del 5 marzo 2001). La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha in realtà nel corso degli anni fatto ciò quanto la legge Pinto ha perso l’occasione di fare, e cioè oggettivizzato parametri che ha ritenuto ragionevoli per l’equa riparazione del danno da ritardo, ed ha riconosciuto 2.000.000 di lire per ogni anno eccedente la durata ragionevole dei processi in primo grado; 1.000.000 di lire per ogni anno eccedente in grado d’appello; 500.000 lire per ogni anno eccedente in Cassazione o in sede di rinvio. Ora, non v’è chi non veda che una tale parametrazione dei risarcimenti, o indennità che dir si voglia, incontra i limiti che ogni oggettivazione semplificata comporta, cosicché inevitabilmente detti parametri devono essere suscettibili di aggiustamenti in virtù della specificità del singolo caso. Tuttavia, ritengo che tale “tabellazione” nata in sede europea non potrebbe, per i motivi già esposti, essere ignorata dalla giurisprudenza delle Corti d’Appello italiane, le quali sono naturalmente libere di adattare questi criteri al singolo caso[17], senza tuttavia - a mio parere - potere responsabilmente derogare al ribasso a questi parametri, da intendersi come criteri minimi di risarcimento.

            Quella della Corte di Strasburgo è una giurisprudenza veramente conforme, consolidata ed unanime (non come quella nostrana, dove i c.d. “arresti” della Corte di Cassazione sono sempre più rari e dove non si è mai sicuri che un principio dettato dalla nostra corte di legittimità non trovi puntualmente pronuncia difforme o contraria in altra sezione della Corte Suprema o in curie locali che si ribellano alla funzione nomofilattica della Cassazione) perché ripetuta, con pedante sistematicità e letteralità, nelle migliaia di pronunce di condanna che si sono succedute negli anni a carico dell’Italia[18]. Ed infatti, come tale - cioè come precedente ineludibile - la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è stata percepita e mutuata dalle Corti italiane, per quanto attiene alla identificazione della ragionevole durata di un processo (e conseguentemente, dunque, ai termini nei quali la durata di un processo diviene irragionevole): la giurisprudenza consolidata della Corte europea ha da tempo (sin dalla prima, storica, condanna: il ricordato caso Capuano c. Italia) enucleato i termini temporali massimi di durata del processo sancendo, come regole generali, che i ricorsi contro procedimenti che sono durati meno di tre anni (due anni e sette mesi, se concernenti lo stato delle persone, i fallimenti, le pensioni, il diritto del lavoro ed altri diritti primari) sono irricevibili; come sono irricevibili quelli contro cause che, in tutti i gradi di giudizio compresa la Cassazione, sono durati meno di sei anni (otto anni in caso di giudizio di rinvio ed undici anni in caso di secondo rinvio)[19], avendo così di riflesso identificato i termini massimi di ragionevole durata dei processi italiani. Rappresenta dunque scelta motivatamente coerente uniformarsi a detti parametri europei, come è stato fatto sin da una delle prime decisioni delle Corti d’Appello italiane, la quale ha decretato che “la durata ragionevole del processo di primo grado, anche alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo, può essere determinata, in via generale e approssimativa, in tre anni”[20]. Ma se la giurisprudenza della Corte europea viene condivisa sul punto dei termini di durata del processo, allora perchè viene invece, in maniera incoerente, sistematicamente disattesa sul punto della misura dei risarcimenti riconosciuti a coloro che della durata irragionevole dei processi sono rimaste vittime?

            La divergenza con la giurisprudenza della Corte si realizza soprattutto, ma in termini assai significativi, con la riluttanza a riconoscere il patimento di un danno non patrimoniale e, comunque, con la tendenza a disconoscerlo in capo alle persone giuridiche[21]. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, contrasta con la normativa europea[22] la negazione del diritto alla tutela in capo alla persona giuridica, e non solo fisica, ed infatti non mancano decisioni di altre Corti d’Appello[23], che hanno affermato il principio contrario, espressamente ritenendo configurabile il diritto all’indennizzo, anche a titolo di danno extrapatrimoniale, per le società, “in considerazione del rischio d’impresa e della difficoltà di esazione dei crediti”; e, quanto all’inquadramento della alterazione psichica in capo ad un ente collettivo, la giurisprudenza - anche in materia di legge Pinto - ha chiarito che “la sofferenza psichica e morale e, dunque, un danno non patrimoniale” è configurabile a carico di coloro che rappresentano l’ente collettivo, “per il principio della immedisimazione della rappresentanza organica con l’ente”[24].

            La sopra richiamata sentenza della Corte di Cassazione, che ha sostanzialmente negato diritto all’indennizzo a chi non sia in grado di provare di avere subito una lesione psico-fisica da “patema d’animo”[25], esprime peraltro un orientamento che già era stato anticipato da alcune decisioni di merito di Corte d’Appello italiane. L’orientamento restrittivo sulle liquidazioni era stato per esempio prefigurato dalla Corte d’Appello di Roma[26], la quale aveva ritenuto infondata la domanda di equa riparazione proposta “in difetto di prova di un qualunque pregiudizio di carattere economico o morale”, laddove la Corte europea - comunque seguita da altre Corti d’Appello italiane[27] - ha sempre riconosciuto il diritto all’indennità per il danno morale senza che fosse obbligatorio fornire la prova di tale danno, ritenuto in re ipsa. E sarebbe veramente grave se l’orientamento che emerge in Cassazione e che, in ogni caso, pare essere fatto proprio da molte Corti d’Appello, sottintendesse il messaggio che “gli anni delle vacche grasse sono finiti”, perché non stiamo parlando di cause promosse a mo’ d’investimento economico, ma di ricerca di una tutela che quasi quindici anni di giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno riconosciuto e ribadito, anche nel suo contenuto economico, e che ora non è più possibile, a meno di essere nuovamente messi alla berlina in Europa, cancellare con un colpo di spugna. La conclusione che deve giocoforza applicarsi ad un tale orientamento, in caso di sua conferma e diffusione presso le Corti d’Appello, è assai preoccupante, poichè postula che un processo può impunemente avere una durata irragionevole, e magari irragionevolissima, senza che la sua lunga durata possa essere fonte di un diritto liquidabile alla parte che subisce un tale processo, perchè magari questa - anche se la causa è durata vent’anni - non ha avuto, bontà sua, l’esaurimento nervoso, la depressione, l’insonnia.

            Oltre a quanto già osservato, non può tacersi il fatto che, se anche la legge Pinto dimentica (pour cause, evidentemente) di menzionare il coordinamento con il disposto del neo art. 111 Cost., la norma costituzionale in parola rileva non solamente sotto il profilo della ragionevolezza della durata del processo, ma anche con riguardo alla terzietà del giudice, principio garantito oltre che dall’art. 111 Cost. anche dallo stesso art. 6 della Convenzione europea. È con riguardo a questo riflesso che ritengo si possa eccepire che la trasmigrata competenza in capo alle Corti d’Appello (scilicet, ai giudici italiani) violerebbe tale disposto, ponendo i giudici italiani contemporaneamente nella posizione di controllati e di controllori. C’è chi ha parlato addirittura, suggestivamente, di collocazione giuridica del vecchio principio che “i panni sporchi si lavano in famiglia”[28]; senza giungere a tanto, è comunque indubbio, a mio avviso, che il procedimento interno sconta una innegabile - poichè il prodotto della giurisprudenza nostrana ciò mostra - dose di indulgenza del giudice domestico, che è pur sempre uno dei protagonisti del processo di irragionevole durata, e quindi una delle concause (a volte incolpevole, a volte no) della violazione del diritto che vuole oggi trovare tutela davanti allo stesso giudice nazionale che di quei ritardi è corresponsabile.

            Si è obiettato che se così fosse sarebbe anche incostituzionale la legge sulla responsabilità dei magistrati (alla quale la legge Pinto fa espresso riferimento nella individuazione del criterio di competenza), che ugualmente conferisce la competenza a giudicare alle Corti viciniori[29]. L’argomento non mi pare convincente, perché riduttivo e perché non considera che tale legge venne varata quando ancora l’art. 111 della Costituzione non era ancora stato novellato; ed anche perché, a differenza del caso in cui un magistrato venga chiamato a giudicare sull’operato specifico e particolare di un collega, nel caso delle violazioni oggetto della tutela offerta dalla legge Pinto al magistrato “sotto accusa” (insieme agli altri protagonisti del processo, parti e loro avvocati inclusi s’intende) non è tanto addebitato un particolare e specifico comportamento causativo di danno (quale potrebbe essere, per esempio quello di avere investito qualcuno sulle strisce pedonali), quanto la condivisione (rectius la direzione e l’indirizzo, ex art. 175 c.p.c.) di regole e comportamenti processuali che hanno causato ritardi nei processi italiani. E se consideriamo che, come criterio generale, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha identificato come colpiti da irragionevole ritardo tutti i processi civili che in primo grado sono durati più di tre anni, capiamo bene come tale situazione sia oggettivamente condivisa dalla stragrande maggioranza dei giudici italiani.

            D’altronde, la necessità di terzietà del giudice ha già avuto una fragorosa elusione con la nota decisione della Corte d’Appello di Torino dell’11 luglio-5 settembre 2001[30], che ha suscitato vivaci polemiche a causa dei toni davvero fuori luogo nella quale ci si è abbandonati nel liberare una fluviale, scomposta ed in larga parte inconferente filippica in controffensiva[31]. Il trasporto con il quale il giudice torinese ha redatto il suo notorio decreto tradisce la forte immedesimazione che lo ha animato: il provvedimento dispiega un’accalorata difesa della giurisdizione italiana dalle accuse provenienti da una giurisdizione - quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo! - che si reputa apertis verbis inetta ed indegna a giudicare del funzionamento dell’ordinamento giuridico italiano. Pur nel suo errabondo argomentare, il provvedimento in parola ha il pregio di rendere evidente quello che deve essere considerato uno dei vizî più immediatamenti percepibili del processo domestico introdotto dalla legge Pinto: il difetto del requisito costituzionale della terzietà del giudice chiamato a rendere giustizia al cittadino italiano privato del proprio diritto ad un processo di ragionevole durata.

            In forza di tutto quanto sopra osservato, è facile concludere che la legge Pinto rappresenta - nè più nè meno - che uno sfacciato tradimento, per esigenze politiche non meno che di bilancio dello Stato, tanto delle prerogative della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, quanto dei principi dettati, in anni di severa elaborazione giurisprudenziale, dalla Corte di Strasburgo, il tutto a danno del cittadino italiano. È però altrettanto facile - ritengo - prevedere che la questione sia destinata a ritornare oggetto dell’esame, magari non più esclusivo, della Corte europea. Infatti, il brevissimo termine previsto dalla legge Pinto per la decisione della Corte d’Appello (con il dichiarato intento di evitare il paradosso di ricorsi alla Corte di Strasburgo contro l’irragionevole lunghezza del procedimento innanzi alla Corte d’Appello), non tien conto del fatto che l’organo di giustizia internazionale potrà a ragione ritenere non efficace lo strumento del rimedio interno in caso di “sforamento” del detto termine di quattro mesi (che rappresenta quindi implicitamente, per scelta legislativa, la misura della “ragionevolezza” del termine di durata del processo innanzi alla Corte d’Appello), con la conseguenza che i ricorrenti potrebbero essere ritenuti esonerati dal dover utilizzare il rimedio interno e ricorrere così direttamente - di nuovo - a Strasburgo. Già la Corte europea ha stabilito che la effettività del rimedio interno è ineludibile, dovendo questo essere non solo teorico ma anche pratico e non potendo gli Stati difendersi davanti alla Corte europea eccependo il mancato esperimento del rimedio interno quando questo si sia dimostrato non effettivo né efficace[32]. D’altronde, se così non fosse avrebbe ragione chi autorevolmente evoca il gioco delle tre carte, dove il diritto dell’uomo che compare (a Strasburgo), scompare e ricompare (in Italia), per poi definitivamente scomparire[33].

            È comunque evidente sin d’ora che, se si apriranno cunei legittimanti, sarà tutto interesse dei cittadini italiani infilarvisi, nel caso in cui si confermi una tendenza della giurisprudenza delle Corti d’Appello a liquidazioni irrisorie o comunque non “eque e giuste”, ovvero se, ancor più sciaguratamente, dovesse trovare diffuso credito l’orientamento espresso, vogliamo sperare in isolamento culturale, dalla seconda sezione della Corte d’Appello di Torino.

 

                                                                                     Giovanni Berti Arnoaldi Veli



[1] Pubblicato su Questione Giustizia, n. 1/2003, 157.

Lo scritto costituisce parziale ripresa ed ulteriore sviluppo de La legge Pinto sull’equa riparazione dei danni per la non ragionevole durata dei processi: problemi applicativi ed interpretativi, in Diritto e Formazione, 2002, 157, ed in Rassegna Forense, 2002, 21.

Per scambio d’opinioni, l’indirizzo di posta elettronica dell’autore è studioberti@inwind.it.

[2] Per l’elencazione di tutta la dottrina sino ad allora edita si rimanda allo scritto di cui alla nota precedente. Fra la successiva, si segnalano le monografie di DIDONE, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Giuffrè, 2002, BESSO-DALMOTTO-AIMONETTO-RONCO-NELA (a cura di CHIARLONI), Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, Giappichelli, 2002, e ROMANO-PARROTTA-LIZZA, Il diritto ad un giusto processo tra Corte internazionale e Corti nazionali, Giuffrè, 2002; gli atti del convegno “La nuova normativa in tema di riparazione del danno per l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari: prime riflessioni”, Roma, 5 giugno 2001, con interventi di CONSO-PINTO-LO TURCO-ESPOSITO-LANA, pubblicati in I Diritti dell’Uomo, 2002, 23; la nota di CIVININI alle sentenze pubblicate su Foro It., 2002, 231; gli articoli di BARGIACCHI, L’istituto della equa riparazione per la eccessiva durata del procedimento, in PQM, n. 3/2001, 21, LANA, Principio riparatorio e principio propositivo della legge n. 89/2001, in I Diritti dell’Uomo, 2002, 101, CRICENTI, Massime non consolidate sulla responsabilità da irragionevole durata del processo, in Danno e Responsabilità, 2002, 693, BOZZA, La ragionevole durata del giusto processo, la legge Pinto e il giusto processo, in Il Fallimento, 2002, 299, VULLO, Risarcimento del danno per eccessiva durata del processo e giudizi su status familiari, in Famiglia e Diritto, 2002, 303.

[3] In realtà, come lo stesso firmatario del d.d.l. sen. Michele Pinto ha pubblicamente riconosciuto (cfr. in Equa riparazione per irragionevole durata del processo: la prospettiva del legislatore, dagli atti del convegno “La nuova normativa in tema di riparazione del danno per l’eccessiva durata dei provvedimenti giudiziari: prime riflessioni”, cit., 26), la primigenia del disegno di legge va riconosciuta in capo all’allora Ministro della Giustizia prof. Giovanni Conso, il quale aveva a suo tempo predisposto un d.d.l. volto ad istituire il diritto all’equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole (si tratta del d.d.l. n. 1816 del 18 gennaio 1994, pubblicato in I Diritti dell’Uomo, 1999, 2, 100).

[4] Queste le parole del prof. Conso, presidente emerito della Corte Costituzionale: “la legge era necessaria, non più procrastinabile, addirittura inevitabile se si voleva scongiurare il pericolo di venire sospesi dal Consiglio d’Europa” (così in Legge Pinto: passo ineluttabile anche se certamente non decisivo, dagli atti del convegno “La nuova normativa in tema di riparazione del danno per l’eccessiva durata dei provvedimenti giudiziari: prime riflessioni”, cit., 24).

[5] Traduzione non ufficiale di Giovanna Lisotta, in Guida al Diritto, n. 41/2001, 37.

[6] “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

[7] Pubblicata in Corriere Giuridico 2001, 405, con nota di BULTRINI; sul caso si veda anche: TAMIETTI, Irragionevole durata dei processi e diritto ad un rimedio interno: a margine del caso Kudla c. Polonia, in I Diritti dell’Uomo, n. 3/2000, 23.

[8] Si legga, per esempio, quanto scrivono SACCHETTINI, in Sulla migrazione dei dodicimila ricorsi il rischio dell’ingorgo in Corte d’Appello, in Guida al Diritto, n. 41/2001, 14, e LISOTTA, L’irragionevole estensione della norma transitoria, ivi, n. 38/2001, 19.

[9] Pubblicata in Guida al Diritto, n. 38/2001, 13, con note di TRICOMI, SCALABRINO e LISOTTA. Si vedano anche i commenti di TAMIETTI, Prima pronuncia della Corte europea sulla legge Pinto: la decisione Brusco c. Italia, in I Diritti dell’Uomo, 2002, 45, e di SACCUCCI, Prime statuizioni della Corte europea sulla legge Pinto all’insegna dell’efficientismo giudiziario, ibidem, 56.

[10] Tale è il numero anche riportato nella relazione al decreto legge n. 370 del 12 ottobre 2001.

[11] Con immagine colorita ma certamente non lontana dal vero, il coagente del governo italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Vitaliano Esposito, ha commentato: “approvata la legge, tutti i giuristi ed i giudici della Corte (Europea) hanno festeggiato, brindando a champagne, e subito dopo hanno staccato i telefoni” (così in L’irragionevole durata dei processi: un problema che rimane irrisolto, dagli atti del convegno “La nuova normativa in tema di riparazione del danno per l’eccessiva durata dei provvedimenti giudiziari: prime riflessioni”, cit., 36).

[12] Sulla incostituzionalità di tale previsione si veda DALMOTTO, in Misure acceleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, cit., 208.

[13] Notizia riportata da La Repubblica del 23 luglio 2002, 24.

[14] L’originario disegno di legge del Ministro Conso dedicava ben 16 articoli alle misure per l’accelerazione dei processi, solamente in parte poi assorbite dalle norme contenute nella novella del codice di procedura civile.

[15] Cass. Civ., sez. I, n. 11987 del 10 giugno-8 agosto 2002, pubblicata in Diritto & Giustizia, n. 32/2002, 18, con nota di DIDONE.

[16] Corte d’Appello di Brescia, sez. I, decr. 29 giugno 2001, in Guida al Diritto, n. 38/2001, 21.

[17] Nella considerazione dei possibili adattamenti alle fattispecie, la Corte d’Appello di Brescia ha specificato di ritenere criteri da osservare, nella equa quantificazione del danno, “il rilievo giuridico, sociale ed economico dell’interesse in causa”, dal momento che l’incidenza degli stati d’animo di sofferenza, ansia, disagio psicologico determinati dall’ingiustificato prolungarsi del giudizio “sarà assai diversa a seconda della natura dell’interesse controverso, sia sotto il profilo qualitativo, sia sotto quello della rilevanza economica” (decr. 23-30 agosto 2001, n. 2860, in Guida al Diritto, n. 43/2001, 58, con nota di TRICOMI). Al medesimo principio della “posta in gioco” si è ispirata la Corte d’Appello de L’Aquila, con due propri decreti, entrambi in data 23 luglio 2001, in Corriere Giuridico, n. 9/2001, 1185, con nota di CORONGIU, i quali peraltro richiamano in conformità la giurisprudenza della stessa Corte europea: caso Laino c. Italia del 18 febbraio 1999.

[18] 482 solamente nei diciotto mesi fra il luglio 2000 ed il dicembre 2001: cfr. DE STEFANO, La lunghezza della durata dei processi in Italia condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Impresa, 2001, 1900.

[19] Per una utile rassegna della giurisprudenza della Corte europea, si rimanda al volume edito dal C.S.M. (n. 113 nella collana dei “Quaderni del C.S.M.”, 2000), contenente anche la relazione del coagente del governo italiano presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Vitaliano ESPOSITO, Il ruolo del giudice nazionale per la tutela dei diritti dell’uomo, 417-470.

[20] Corte d’Appello di Torino, sez. I, decr. 19-25 giugno 2001, n. 48, in Guida al Diritto, n. 41/2001, 19, con nota di DE PAOLA.

[21] Corte d’Appello di Brescia, sez. II, decreti nn. 79 e 80/2001, in Guida al Diritto, n. 38/2001, 29-30, con nota contraria di DE PAOLA.

[22] Particolarmente con l’art. 34 del protocollo n. 11 alla Convenzione, sottoscritto a Strasburgo l’11 maggio 1994 e ratificato dalla legge n. 296 del 28 agosto 1997, in vigore dal 1° novembre 1998, che stabilisce che il ricorso alla Corte europea può essere proposto da una persona fisica, da un’organizzazione non governativa, da un gruppo, sicchè la previsione del ricorso individuale comprende sia le persone fisiche che tutte quelle giuridiche, ad eccezione di quelle statali. D’altronde, la stessa legge Pinto, all’art. 2, stabilisce che “chi ha subito un danno...” ha diritto all’equa riparazione, con un riferimento generico ed onnicomprensivo che pare difficile non applicare anche a qualsiasi ente, società o associazione che abbia una soggettività giuridica.

[23] Corte d’Appello di Trento, decr. 31 luglio 2001, in Guida al Diritto, n. 38/2001, 30.

[24] Corte d’Appello di Ancona, decr. 13 ottobre-17 dicembre 2001, n. 22/2001 R.G.A.D., inedita, la quale cita le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 6 aprile 2000 (Comingersoll c. Portogallo) e dell’8 dicembre 1999 (Ozdep c. Turchia).

[25] Per dirla con le parole della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “il pregiudizio morale in dipendenza dell’incertezza e dell’ansia circa l’esito del giudizio, con ripercussioni sulla condizione complessiva, anche di salute, dell’interessato” (decisione del 26 ottobre 1988, in Foro It., 1989, IV, 389).

[26] Corte d’Appello di Roma, sez. II, decr. 19 luglio 2001, in Guida al Diritto, n. 38/2001, 29, con nota contraria di DE PAOLA, Corte d’Appello di Brescia, decr. 6 giugno-29 giugno 2001, in Guida al Diritto, n. 38/2001, 21, con nota di SACCHETTINI, e Corte d’Appello di Potenza, decr. 25 settembre-15 ottobre 2001, in Diritto e Giustizia, n. 41/2001, 14, con nota di BIANCA, ed in Foro It., 2002, I, 232, con nota di CIVININI. Vedi anche FINOCCHIARO, L’istante deve dimostrare l’esistenza di un danno derivante dall’inefficienza degli apparati giudiziari, in Guida al Diritto, n. 46/2001, 29.

[27] Per esempio, dalla Corte d’Appello di Genova, sez. III, che con decr. 12 luglio-28 agosto 2001, in Guida al Diritto, n. 47/2001, 64, ha “ritenuto il protrarsi del procedimento ... di per sè causativo di danno non patrimoniale alle ragioni dell’istante”; dalla Corte d’Appello di Catania, sez. I, che con decr. 10 agosto 2001, in Guida al Diritto, n. 41/2001, 35, ha statuito che “l’equa riparazione del danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, correlabile al protratto stato di pendenza del procedimento, in mancanza di specifici elementi di valutazione può individuarsi con valutazione necessariamente equitativa”; dalla Corte d’Appello di Ancona, che con decr. 10 agosto 2001, Artom c. Min. Giustizia, inedito, ha riconosciuto che “il danno morale, inteso come patema d’animo e stato di disagio connesso alla mancata definizione del giudizio, può ritenersi in re ipsa o comunque dimostrato sulla base dell’id quod plerumque accidit e la sua liquidazione sfugge ad una valutazione analitica e va, di necessità, effettuata secondo criteri di equità”.

[28] SACCHETTINI, in Più difficili i ricorsi ai giudici di Strasburgo; così l’utente si ritrova a tutela dimezzata, in Guida al Diritto, n. 14/2001, 18.

[29] DIDONE, L’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, in Questione Giustizia, n. 3/2001, 519.

[30] Sez. II, pres. ed est. Vitrò, decr. n. 56, pubblicato in Guida al Diritto, n. 41/2001, 22, con nota contraria di DE PAOLA.

[31] Il decreto, che esordisce annunciando “brevi premesse”, consuma pagine e pagine nel difendere il sistema giustizia italiano, “espressione di alta civiltà giuridica, che ha un ottimo funzionamento, che non deve essere confuso con la c.d. crisi della giustizia, dovuta ad altri fattori” e per riconvenzionalmente propugnare l’inadeguatezza a rendere “decisioni giuste e fondate” del “sistema processuale di Strasburgo”; e continua, per citare alcuni passi fra i più sconcertanti: “la crisi della giustizia è voluta dalle parti e dai loro difensori ... la giustizia non può essere utilizzata per eliminare la disoccupazione intellettuale dei giovani, che impreparati e non idonei per altri mestieri, si rifugiano negli albi professionali per sbarcare il lunario ... in Italia la maturità e la laurea in legge non si nega a nessuno”. Conseguenza di siffatto ragionare è la reiezione del ricorso per inammissibilità (sic), con sostanziale inapplicazione sia della Convenzione sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che della consolidata giurisprudenza maturata in tale sede, sia - in definitiva - della stessa legge Pinto (ed infine anche in contrasto con le decisioni rese da altra sezione della medesima Corte d’Appello), con il tocco finale della condanna del ricorrente alle spese nella misura di ben otto milioni di lire.

[32] Casi Civet c. Francia del 28 settembre 1999, e Beer e Regan c. Germania del 18 febbraio 1999.

[33] Così Vitaliano ESPOSITO, coagente del governo italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in L’irragionevole durata dei processi: un problema che rimane irrisolto, cit., 35.